Il fenomeno migratorio: un'analisi interdisciplinare

(per problemi tecnici, non sono visulizzabili le tabelle statistiche)

I.I.S. “BERETTA” – LICEO SOCIO-PSICO-PEDAGOGICO

CLASSE 5 BSPP

A.S. 2007/08


AREA DI PROGETTO

IL FENOMENO MIGRATORIO: UN’ANALISI INTERDISCIPLINARE

LA RICERCA SOCIALE: L’IMMIGRAZIONE A GARDONE VT


DISCIPLINE COINVOLTE: Metodologia della ricerca, Psicologia, Sociologia, Pedagogia, Filosofia, Storia, Biologia, Legislazione sociale
GLI AUTORI: alunni della 5° BSPP del Liceo socio-psico-pedagogico di Gardone Val Trompia, A.S. 2007/08.
In particolare, hanno curato:
  • BELTRAMI Laura: la globalizzazione , la scuola e l’intercultura  – ricerca:  Cti, Ctp e progetti interculturali 
  • BERNA Silvia: dati nazionali , la società multiculturale , modelli di convivenza , situazioni ponte , la “razza” umana   – ricerca: dati Gardone VT, dati sulla scuola, finanziamenti delle istituzioni
  • BETTERA Stefania: ricerca: la vita sociale
  • BETTINSOLI Claudia: dati nazionali, flussi e motivazioni, la società multiculturale – ricerca: dati Gardone VT, dati sulla scuola, finanziamenti delle istituzioni
  • CHINDAMO Chiara: flussi e motivazioni, pregiudizio e discriminazione, la “razza” umana  –  ricerca: la condizione femminile, Cti, Ctp e progetti interculturali
  • CONTRINI Edda: multiculturalismi (Habermas vs Taylor) -  ricerca: il volontariato
  • FELICINA Maurizio: il lavoro, il diverso nella filosofia (la tolleranza)  – ricerca: la rete dei servizi, intervento sul sociale delle istituzioni
  • FERRAGLIO Laura: mass-media e immigrazione, la devianza, multiculturalismi (Habermas vs Taylor) -  ricerca: il volontariato, atteggiamenti culturali
  • GUERINI Silvia: immigrazione e globalizzazione, flussi e motivazioni, scuola e intercultura, multiculturalismi (Habermas vs Taylor)  – ricerca: la vita sociale, il volontariato
  • GUIZZI Valentina: modelli di convivenza, situazioni ponte e la famiglia immigrata, scuola e intercultura , il diverso nella filosofia (diversità e uguaglianza)  - ricerca: la vita sociale, intervento sul sociale delle istituzioni
  • MARCHI Aldo: l’integrazione ricerca: la rete dei servizi, l’intervento sul sociale delle istituzioni
  • PELLEGRINI Sara: dati nazionali, la società multiculturale, modelli di convivenza, situazioni ponte – ricerca: dati Gardone VT, dati sulla scuola, finanziamenti delle istituzioni
  • PIARDI Arianna: mass-media e immigrazione, la devianza, multiculturalismi (Habermas vs Taylor)  -  ricerca: il volontariato , atteggiamenti culturali
  • TAGLIANI Francesca: le forme della globalizzazione, pregiudizio e discriminazione – ricerca: la condizione femminile, Cti, Ctp e progetti interculturali
  • TEMPONI Marco: la globalizzazione, il colonialismo italiano, la famiglia immigrata - ricerca: cti, ctp e progetti interculturali, la famiglia immigrata a Gardone
  • ZANAGNOLO Mattia:, la decolonizzazione, l’identità culturale, i modelli di convivenza, le situazioni ponte  - ricerca: la vita sociale, finanziamenti delle istituzioni

PARTE 1°


IL FENOMENO MIGRATORIO: UN’ANALISI INTERDISCIPLINARE



INDICE

Ø CAPITOLO 1: I PROCESSI MIGRATORI                                                     
¨      1.1 I dati nazionali                                                                       
¨      1.2 La globalizzazione                                                                 
¨      1.3 Il colonialismo e la decolonizzazione                         
¨      1.4 Flussi e motivazioni                                                  

Ø CAPITOLO 2: LA NUOVA SOCIETA’ MULTICULTURALE                  
¨     2.1 La società multiculturale                                              
¨     2.2 L’identità culturale                                                       
¨     2.3 L’integrazione                                                               
¨     2.4 I modelli di convivenza                                                 
¨     2.5 Multiculturalismi: Habermas vs Taylor                       
¨      2.6 Scuola e intercultura                                                          
¨     2.7 Le situazioni ponte e la famiglia immigrata                       
¨     2.8 Il lavoro                                                                                  
¨     2.9  Le leggi sull’immigrazione in Italia                                     
Ø CAPITOLO 3: LA RAPPRESENTAZIONE DEL DIVERSO                            
¨      3.1  Mass-media e immigrazione                                               
¨      3.2  Pregiudizio e discriminazione                                              
-      3.3  La devianza                                                                            
¨      3.4  La diversità nella filosofia                                                   


CAPITOLO 1

I PROCESSI MIGRATORI

Ø 1.1  I DATI NAZIONALI                                                                                    
- Criteri Istat per la rilevazione degli immigrati                    
- L’aspetto statistico dell’immigrazione                                 
- I dati dal 1970 al 2005.                                                
- Il flusso migratorio nella provincia di Brescia          
- Gli irregolari                                                              

Ø 1.2  LA GLOBALIZZAZIONE                                                                           
- Introduzione                                                                          
- Le forme della globalizzazione                                             
- Finzione o realtà?                                                                 
- Immigrazione e globalizzazione  
                                         
Ø  1.3  IL COLONIALISMO E LA DECOLONIZZAZIONE                            
- Il colonialismo antico                                                          
- La scoperta dell’America                                                   
¨ L’espansione europea dopo il 1492                                   
¨ Il cattolicesimo nel colonialismo                                        
¨ L’Europa nel XIX  secolo                                                   
¨ La decolonizzazione                                                            
¨ Il colonialismo italiano               
                                       
Ø  1.4  FLUSSI E MOTIVAZIONI                                                                 
¨ I flussi migratori                                                                
¨ Le motivazioni che spingono a migrare                           

1.1  I DATI NAZIONALI
Criteri Istat per la rilevazione degli immigrati
Per fornire un’impronta quantitativa e oggettiva alla nostra ricerca ci siamo avvalsi di dati provenienti dagli istituti di statistica nazionali tra i quali l’Istat, la Caritas-Migrantes, l’Ismu; ma anche istituzioni presenti nel nostro comune come, l’anagrafe e le associazioni che si occupano dell’immigrazione (Karibu e Comunità Montana).
Ogni qualvolta si decida di fare un’indagine quantitativa, ci si deve avvalere di indicatori determinati e osservabili. Nello strutturare la nostra ricerca, abbiamo ricavato i dati dall’Anagrafe di Gardone Val Trompia, che a sua volta deve svolgere le indagini statistiche facendo riferimento ai criteri adottati dall’Istat, l’Istituto di statistica nazionale. L’identificazione della popolazione straniera segue specifiche procedure. I dati fanno riferimento alla popolazione residente di cittadinanza straniera che è composta in larga parte da immigrati, stranieri provenienti da Paesi membri dell’Unione Europea, anche se sono sempre più numerosi coloro che sono iscritti in anagrafe per nascita (essendo nati in Italia da genitori stranieri). La popolazione straniera residente comprende le persone di cittadinanza straniera che risultano iscritte alle anagrafi comunali, pertanto comprende gli individui regolarmente presenti sul territorio nazionale e residenti in famiglia, anche se temporaneamente all’estero. Quindi vengono esclusi:

·          Gli stranieri presenti in Italia in modo irregolare, cioè coloro che non possiedono un permesso di soggiorno.
·          Quelli che, sebbene provvisti di permesso di soggiorno, non sono iscritti alle liste anagrafiche.
·          Coloro che vivono in convivenze come gli istituti religiosi, di cura, ecc.
·     I collaboratori domestici di cittadinanza straniera (colf e badanti) se registrati in anagrafe come componenti della famiglia presso la quale prestano servizio.
·          Le famiglie che vivono abitualmente all’estero.

La famiglia di fatto è l’unità di riferimento principale adottata dai ricercatori che compiono indagini relative a questo oggetto di studio. Per l’Istat la famiglia è intesa come insieme di persone coabitanti, legate da vincoli di matrimonio, parentela, adozione, tutela o da vincoli affettivi. Tra i componenti della famiglia di fatto sono esclusi i collaboratori domestici, che possono entrare a fare parte del campione solo se registrati anagraficamente in un proprio stato di famiglia, e gli individui che vivono nello stesso alloggio per esclusive ragioni di tipo economico.
I dati campionari rilevati dall’indagine vengono riportati nella totalità tenendo conto della distribuzione territoriale, per età, sesso e cittadinanza della popolazione di riferimento. Tuttavia queste informazioni, che sono di fonte anagrafica, non vengono aggiornate con la stessa tempistica, infatti la precisione delle stime si riduce al diminuire dell’ampiezza dell’insieme stimato a cui si fa riferimento. Quindi le indagini fatte a livello provinciale o regionale possono presentare errori campionari più elevati in confronto a quelli relativi alle stime fornite con riguardo al totale della popolazione.

L’ASPETTO STATISTICO DELL’IMMIGRAZIONE
I dati a livello nazionale dal 1970 al 2005.
Con l’avanzare degli anni il numero della presenza straniera in Italia è aumentato sempre più. Dal 1970 ad oggi si è passati  da 114.000 persone a quasi 3.000.000, con un aumento di ben 26 volte. Prima questa presenza era marginale nella società italiana, ora ne è diventata uno dei fenomeni più rilevanti. Tra il 1979 e il 1980 si ha una forte crescita passando da 205.449 a 298.749 con un incremento del 45.4%. In realtà in quel periodo non si verificano avvenimenti particolari ma si modifica solamente il sistema di registrazione dei permessi di soggiorno.
Un altro forte aumento, questa volta effettivo, si ha nel 1987 quando da 450.277 si arriva a 572.103 soggiornanti (+27. 1%). Questa variazione è dovuta alla prima regolarizzazione dell’immigrazione con una legge varata dal 1986 al 1988.

Negli anni ’90 si assiste al raddoppio dei soggiornanti che passano da 649.000 alla fine del 1991, fino a 1.341.000 nel 2000. Ciò aiuta a prendere coscienza del fatto che il fenomeno è diventato di massa.
Nei primi anni del secondo millennio si registra l’ingresso di persone provenienti dalla penisola balcanica, dove sono scoppiati i conflitti legati dall’assestamento dell’ex Repubblica federale Jugoslava ed al suo frazionamento in diversi Stati. Successivamente gli immigrati vengono anche dagli altri Paesi dell’Est Europa che diventano i grandi protagonisti sullo scenario immigratorio italiano e così al consistente aumento degli albanesi fa riscontro successivamente quello dei
romeni, dei polacchi, degli ucraini e di altre nazionalità.


Dal 1991 al 2001 la componente maschile nelle classi di età compresa tra i 20 ed i 39 anni riscontra una forte riduzione dal 61% al 49.3%. Ciò è dovuto ad una fase di maturazione dell’immigrazione straniera nel nostro Paese. Ad immigrare perciò sono i maschi di seconda generazione ed i minori. La componente più consistente è rappresentata dalle donne a causa del possibile ricongiungimento famigliare e della domanda di lavoro soprattutto in mansioni specifiche del campo femminile, come ad esempio le badanti che hanno avuto forte incidenza soprattutto in questi ultimi anni.

Anni di riferimento: 1998, 2001 e 2005:
Prendiamo in considerazione principalmente tre anni di riferimento:
  • il 1998, anno in cui è stata varata la legge 40 che regola l’immigrazione e fornisce normative sulla condizione dello straniero (disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento, il lavoro, la famiglia e la tutela dei minori);
  • Il 2001, anno in cui si è verificato un notevole incremento della percentuale di immigrati nel nostro Paese;
  • Il 2005, anno che ci fornisce un’idea del fenomeno migratorio attuale.


ANNO 1998

Nell’anno 1998 la presenza straniera nel nostro territorio aveva raggiunto un livello maggiore rispetto agli anni precedenti, livello che aumenterà progressivamente negli anni successivi. Come si può dedurre dal grafico la maggiore zona di provenienza è l’Europa con quasi il 40% di immigrati (486.448 individui). Non meno significativo è il dato africano che rileva una provenienza che supera leggermente il 28% (equivalente a 350.952 individui). Seguono l’America, l’Asia e l’Oceania con una minore rilevanza, per un totale complessivo di 1.240.721 immigrati.
Le motivazioni che inducono allo spostamento sono principalmente di carattere lavorativo (61%), famigliare (18.6%), a cui seguono motivazioni di carattere religioso, legate allo studio e al turismo.
Gli immigrati si insediano prevalentemente al nord. Probabilmente questo è dovuto al fatto che la domanda di lavoro al nord è maggiore, visto anche la maggiore industrializzazione di questa macroarea. Questo è confermato dal fatto che tra le principali motivazioni che spingono gli immigrati ad abbandonare il loro Paese d’origine, come detto prima, è propria la necessità di lavoro.

Ripartizione degli immigrati in base al sesso:
Non c’è un forte divario tra la presenza maschile e quella femminile, circa il 10%; in questo periodo infatti inizia a svilupparsi il fenomeno del ricongiungimento famigliare secondo il quale l’uomo porta con sé o ricongiunge, nel territorio dove si è stabilito negli anni precedenti, la famiglia dal  Paese di provenienza.



Stato civile degli immigrati:

Solo circa il 45% degli immigrati risulta sposato. In questa percentuale sono conclusi coloro che si sposano con un coniuge italiano.





Le famiglie con prole a carico raggiungo solo l’11%; questo perché nella maggior parte dei casi i minori non si spostano con il capofamiglia ma rimango nel proprio Paese d’origine con il resto della famiglia.



ANNO 2001
Area geografica di provenienza nel 2001
Nel secondo anno di riferimento possiamo notare che maggior provenienze interessano l’Europa soprattutto quella centro-orientale, seguita dalla Africa (in prevalenza settentrionale) e dal continente asiatico.
Per quanto concerne l’Europa, sono prevalentemente le donne ad emigrare verso l’Italia. Ad espatriare dall’Africa la maggioranza è rappresentata dalla componente maschile, soprattutto provenienti dal Maghreb (Tunisia, Algeria e Marocco) con un totale di immigrati pari a 386.329 unità.
Le provenienze dall’Asia  (276.642 individui) riguardano soprattutto le zone orientali e non c’è una netta differenza tra immigrati di sesso maschile e di sesso femminile.
Sono soprattutto, per quanto riguarda l’America, da cui provengono 168.013 persone, le donne dell’America Latina ad emigrare verso il nostro territorio (Venezuela, Brasile e Argentina).
E’ relativamente basso il numero di immigranti dal continente oceanico (quasi 3000 unità).
Rispetto all’anno di riferimento precedente l’area di provenienza maggiore è comunque rimasta l’Europa con 599.634 individui circa. Il numero di presenze è aumentato dal 1998 (quasi 400.000 persone in più) ma rimangono comunque inalterati i luoghi di provenienza.
Il totale degli immigrati in Italia nel 2001 è di 1.448.392.



                                                                           
                                                                                                                                                       Presenza di stranieri a livello nazionale:
Nell’anno 2001 il Lazio ha conosciuto un aumento fisiologico del numero di immigrati, seguito dalla Lombardia, per le più elevate potenzialità di inserimento lavorativo, e dalla Sicilia, in quanto zona di approdo degli sbarchi soprattutto da parte di immigrati clandestini. Il numero di immigrati è sì cambiato, ma a modificarsi è anche la macroarea più interessata; ci siamo infatti spostati verso la zona centro-meridionale dell’Italia.



Durata della permanenza nel territorio italiano:


Gli stranieri residenti nati all’estero si sono trasferiti in Italia, in media, da circa 8 anni e quasi uno su tre vive in Italia da almeno 10 anni, sebbene la quota più rilevante (il 41%) sia rappresentata da coloro che si sono trasferiti nel nostro Paese da meno di 5 anni.

ANNO 2005
Aree geografiche di provenienza nell’anno 2005:


Nel 2005 il numero di immigrati raggiunge i 2.356.850. E’ sempre l’Europa a detenere il primato e la percentuale aumenta con il passare degli anni, infatti con una percentuale di 43.6% il complessivo degli immigrati da questo continente è di 1.027.586. I flussi dall’Africa (16.9% quindi 398.307) sono diminuiti mentre si affaccia sempre di più l’Asia con un incremento del 10% circa rispetto al decennio passato, con il 26.8 % di provenienze sfiora 632.000 immigrati. Allo stesso modo avanzano i paesi di nuova adesione all’Unione Europea, vale a dire Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria con una percentuale del 2.9% (68.348 singoli).

Presenza di stranieri nelle regioni italiane e nelle macroaree:



Le maggiori presenze si riscontrano nel nord Italia, i forti flussi si sono spostati dal Lazio verso la Lombardia, luogo di massiccia industrializzazione. Il Lazio continua comunque a detenere la supremazia rispetto alle regione del centro, mentre per il sud sono sempre la Sicilia e la Puglia le maggiori mete di immigrazioni.
I minori
I minori in Italia erano, alla fine del 1995, in numero di 31.074, pari al 3,1%, di quelli regolari, dopo dieci anni, sono 412 mila, pari al 20,7% rispetto al totale degli immigrati.



Il flusso immigratorio nella provincia di Brescia
Per rendere più chiarificatrice la lettura dei dati contenuti in questa ricerca abbiamo ritenuto opportuno mostrare una panoramica generale del fenomeno immigratorio anche a livello provinciale. Innanzitutto, come possiamo notare da questo grafico, la popolazione residente italiana rappresenta l’87.5% della popolazione totale, mentre gli stranieri sono solo il 12.5%. Questo dato non rispetta l’incidenza straniera a livello nazionale (4%) in quanto gli stranieri sono presenti prevalentemente nelle zone a maggiore industrializzazione (Nord Italia), mentre a livello nazionale non si distribuiscono in modo omogeneo su tutto il territorio.  Gli uomini rappresentano il 64% mentre le donne il 36%.

Zone di maggior provenienza:
Abbiamo individuato i Paesi di maggior provenienza degli stranieri che immigrano nella nostra Provincia. Dall’Europa immigrano in prevalenza le popolazioni di: Albania (13%) e Romania (7%). Ghana, Marocco e Senegal sono i paesi di maggior provenienza per quanto riguarda il continente Africano con un complessivo del 24%. India e Cina rappresentano rispettivamente il 7 e il 5% di rilevanza sulla nazionalità degli immigrati bresciani.
Le provenienze su scala continentale vedono come principale area di emigrazione l’Est Europa, seguita da Asia e Nord Africa (con distinzione minima), infine, dall’America Latina con le 5 migliaia di immigrati.


Incidenza sulle varie province lombarde

Il maggior numero degli immigrati si concentra nel capoluogo lombardo che raggiunge circa le 351 migliaia. Successivamente troviamo Brescia (con 128.3 migliaia) e Bergamo (con 84.7 migliaia). Le altre province hanno percentuali meno rilevanti fino ad arrivare a Sondrio con il 2.5% di immigrati
sulla popolazione residente.


Gli immigrati irregolari 
La presenza degli irregolari in Italia è una realtà certa anche se non esattamente conosciuta nella sua dimensione quantitativa.
Nel 2005 si sono presi questi provvedimenti rispetto agli immigrati irregolari:
·          Respingimenti: 23.878
·          Sbarchi: 22.939
·          Rimpatri: 26.985
·          Transitati nei centri di permanenza temporanea: 16.163
·          Non ottemperanti all’obbligo di lasciare l’Italia: 65.617



Le nazionalità più implicate nei respingimenti sono: Est Europa con il 52% (principalmente Romania e Bulgaria), Africa (15%), America (12%) e Asia (9%).



Le regioni più soggetti a respingimenti nel nostro paese sono Lombardia e Friuli Venezia Giulia che contano in media 5.000/6.000 casi, seguite da Piemonte e Lazio con 2.000 casi.
I casi di rimpatri nel 2005 sono stati 26.985. Le popolazioni rimpatriate sono prevalentemente Est europee per il 50%, africane per il 20%. Le regioni italiane con maggiori espatri sono Lombardia, Lazio, Piemonte e Friuli Venezia Giulia ma si aggiungono anche Emilia Romagna e Puglia.
Nei 13 centri di permanenza temporanei sono transitate, nel 2005, 16.163 individui.
Come risultato a questa modalità restrittiva abbiamo un tasso medio di rimpatrio del 68.6%, in media 1 individuo su 5 viene dimesso senza rimpatrio; in questo caso si ricorre a: asilo politico, mancata convalida dell’autorità giuridica (4.6%), fuga dell’irregolare (con 160 casi), arresto (con circa 110 casi) o per altri motivi (883 casi).
1.2 LA GLOBALIZZAZIONE
Introduzione
A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, le principali attività economiche, sociali e culturali delle città hanno subito un radicale mutamento tendente alla connettività complessa, cioè all’uniformità generale e allo scardinamento dei vincoli spaziali e temporali dell’esistenza umana, che prende il nome di globalizzazione. Con il termine globalizzazione ci si riferisce a un insieme di fenomeni, tra cui i più importanti sono, prima di tutto, le nuove possibilità di movimento e di comunicazione che superano i precedenti confini spaziali e geografici, grazie al supporto di nuove tecnologie; in secondo luogo i rapporti sociali che hanno ormai acquisito i tratti tipici delle interazioni fra città (come li ha descritti Georg Simmel, sociologo e filosofo tedesco), senza aver più bisogno di un contesto concreto in cui avere luogo. Perciò la globalizzazione può essere definita come uno stato di connettività complessa, ovvero un permanente contatto con altre realtà sia a livello macrosociologico degli stati, sia a quello microsociologico del singolo individuo: in altre parole, la facilitazione dei contatti fra persone a prescindere dalla distanza fisica che le separa. E’ importante sottolineare che la maggiore accessibilità ai rapporti interpersonali, si traduce in una trasformazione della relazione tra il tempo e lo spazio, senza però annullare pienamente le distanze fisiche, ma semplificandole.

Le forme della globalizzazione
Possiamo classificare la globalizzazione in diversi forme che la riguardano a seconda degli aspetti che essa comprende. Una prima forma di connettività complessa è quella riguardante l’informazione, ed è forse la forma di maggiore rilevanza poiché ci coinvolge più da vicino e in maniera più influente, permettendoci di essere in perenne contatto con tutto il mondo. Nella società attuale esistono mezzi di comunicazione di massa molto diffusi, che ci permettono di acquisire informazioni, simboli e notizie che influenzano la nostra quotidianità. La conseguenza di questa branca della globalizzazione è l’uniformità di idee, pensieri, stili di vita e beni di consumo; la nascita di associazioni internazionali che si alleano per sostenere una campagna in favore, della difesa dell’ambiente, oppure dei bambini del terzo mondo; gli accordi e scambi internazionali a livello sociale ed economico. Una seconda forma di globalizzazione, altrettanto diffusa e importante, è quella economica, il cui inizio può essere cronologicamente collocato alle prime forme di colonizzazione e di commercio, con la conseguente ripresa a causa dell’evoluzione dell’economia nella seconda metà del XX secolo. Alla globalizzazione economica sono direttamente collegate: la colonizzazione, i commerci e i mercati internazionali, l’uniformità monetaria (es. Euro) e di capitali, la diffusione delle imprese multinazionali e la finanziarizzazione dell’economia. Terza forma di globalizzazione, è quella culturale, secondo la quale, a causa del permanente contatto fra mondi lontani, siamo influenzati nel nostro stile di vita da etnie assai differenti dalla nostra. Inizialmente venne analizzato solamente l’aspetto riguardante l’unificazione delle tradizioni in un’unica cultura globale, ma ben presto ci si rese conto che ciò non bastava a spiegare l’atteggiamento di omogeneizzazione dell’abbigliamento, della musica, dell’alimentazione, delle paure e delle idee che si stava diffondendo a livelli sproporzionati. Segue poi la globalizzazione politica che si riferisce alla partecipazione globale alle questioni internazionali, includendo accordi, scambi e fluidità della competizione complessiva. Si può distinguere anche la globalizzazione spazio-geografica, sotto la cui voce, si include la riduzione delle distanze determinata dalla comunicazione a distanza, la globalizzazione come scoperta (scoperte geografiche non solo a livello globale, ma includendo anche altri pianeti) e come colonizzazione sia di paesi limitrofi, che di luoghi via via più lontani. Esiste anche una dimensione ecologico-morale della globalizzazione costituita dalla formazione di associazioni internazionali che mirano alla conservazione delle risorse del pianeta, alla salvaguardia dei diritti dell’uomo e alla tutela dei più deboli (es. WWF, Emergency ecc). Il docente di sociologia del lavoro all’università “La Sapienza” di Roma Domenico De Masi, nel saggio “Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società pos-tindustriale” distingue, ben dieci forme di globalizzazione, delle quali l’ultima le racchiude tutte: la globalizzazione attuale. Vengono incluse, sotto quest’ultima voce, le forme di globalizzazione sopraelencate, l’unificazione politica e materiale spianata dalle due guerre mondiali, l’unificazione sociale e culturale favorita dall’informatica, il facile trasferimento di persone e merci da un posto all’altro del pianeta, l’avvio degli Stati Uniti a colonizzare e inglobare altri stati.
Finzione o realtà?
La globalizzazione è vista come percezione di vivere in un mondo sempre più integrato, questa connettività complessa, può essere classificata in diverse e varie categorie come, per esempio, la globalizzazione politica, tecnologica ed economica. La certezza che mostra Giddens, noto sociologo contemporaneo inglese, è che la globalizzazione incide sì sui grandi sistemi, ma anche sulla nostra quotidianità e sui nostri modi di pensare; ciò significa che ognuno di noi è catapultato in un mondo globale del tutto sconosciuto, molto dettagliato e difficilmente vivibile. La teoria di Giddens è che tutti i paesi parlano di questa unificazione globale, ma nessuno sa precisamente com’è strutturata, tanto che, secondo lui, si possono riscontrare due differenti posizioni di pensiero. Da una parte gli scettici che mettono in discussione l’Idea nel suo insieme: il discorso sulla globalizzazione si riduce a chiacchiere, poiché l’economia globale, i benefici e le vicissitudini sono le medesime dei periodi precedenti. Molti paesi sostengono questi pensatori, poiché non hanno alcun guadagno nel mercato mondiale (Europa che commercia con l’Europa ecc.). Opposta a questa corrente di pensiero, si schierano i radicali (che vedono incluso Giddens stesso); per loro la globalizzazione è molto concreta, un dato di fatto e i suoi effetti si possono riscontrare ovunque. Il mercato mondiale, oggi, è molto più sviluppato rispetto agli anni 60/70 e questo avviene a prescindere dei confini delle nazioni. Queste ultime, secondo i radicali, sono ormai delle vere e proprie funzioni e convenzioni, perché vi è un mondo che è ormai globalizzato. Gli scettici si possono schierare politicamente verso sinistra, proprio perché la loro posizione si rifà completamente agli ideali della vecchia sinistra; per loro la globalizzazione è una vera e propria utopia e i governi controllano attualmente e controlleranno in futuro, l’economia e la vita economica e non di ciascuno di noi. Giddens difende la sua posizione perché il livello di scambio mondiale è molto più alto oggi rispetto ad altre epoche e comprende una vasta e numerosa quantità di servizi e beni; un’altra differenza molto rilevante si può notare nei flussi finanziari e capitali, cioè l’attuale economia mondiale non ha equivalenti nel passato poiché si possono trasferire enormi quantità di denaro da una parte del mondo all’altra semplicemente ciccando il mouse di un computer. Secondo lui, la globalizzazione non è solamente una novità, ma anche una vera e propria rivoluzione che si è diffusa grazie ai sistemi di comunicazione alla fine degli anni 70 (comunicazione elettronica e istantanea). 
Immigrazione e globalizzazione
I motivi che spingono i flussi di immigrazione non sono solo la miseria, le guerre civili oppure etniche, repressioni politiche, persecuzioni religiose, ma soprattutto l’aumento di domande di manodopera da parte dei paesi più sviluppati, a causa dell’invecchiamento della popolazione.
In tal modo, gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un aumento consistente del fenomeno migratorio addirittura dando origine a vari problemi che le nazioni ospitanti dovranno risolvere entro breve.
Un’altra causa è la globalizzazione, intesa come la tendenza di fenomeni economici, culturali e di costume ad assumere una dimensione mondiale, superando i confini nazionali, che in questo periodo ha portato all’incremento del suddetto.
Inizialmente si pensò che la grande apertura dei mercati (mondializzazione) facesse diminuire il bisogno di emigrare; pur essendo aumentati i destinatari di beni di consumo (forniti dalle grandi multinazionali) non si ottenne la ridistribuzione delle ricchezze che poteva portare al mantenimento dei lavoratori nel loro paese d’origine.
La globalizzazione è frutto di tre fattori: l’allargamento degli scambi dovuto alla presenza di nuovi mercati; la nascita di grandi imprese che organizzano a livello mondiale le loro attività di ricerca, di guadagno, di produzione e di approvvigionamento, ed infine l’aumento degli scambi a causa della liberalizzazione.
Da questi tre elementi ne deriva che i ceti sociali dominanti profittano, ma allo stesso tempo si delinea anche una mondializzazione della povertà che tende a diffondersi non solo nei paesi del Terzo Mondo, ma addirittura tra quelli più sviluppati soprattutto tra gli immigrati.
Inoltre la globalizzazione vorrebbe che la libera circolazione dei capitali e delle merci si collegasse con la circolazione delle persone considerate esclusivamente merce-lavoro e quindi non più sottoposte ai sistemi di protezione sociale (salario minimo, limitazione alla durata del lavoro, sicurezza e proibizione dello sfruttamento minorile). Queste vittime costituiscono una riserva di manodopera a buon mercato, da cui scaturisce un traffico di esseri umani spesso diretto da mafiosi.
La globalizzazione non ha risolto i gravi problemi economici che assillano molti stati, soprattutto del continente africano dove ancor oggi il tasso di mortalità a causa della fame è molto alto; per esempio, nello Zambia gli affamati sono circa 2 milioni su una popolazione di 10. Anche lo Zimbabwe si è visto costretto ad accettare gli Ogm (che stanno creando grandi polemiche nel mondo occidentale) a causa della sua disperata situazione alimentare.
Quelli che seguono sono alcuni esempi di sperequazioni nella distribuzione delle risorse che ci sono forniti dal rapporto sullo sviluppo umano del 1998 pubblicato dall’ UNDP.
Le attività patrimoniali delle 3 persone più ricche al mondo sono superiori alla somma del Pil dei 48 paesi meno sviluppati. Quelle delle 15 persone più ricche invece, sono superiori al Pil dei paesi dell’ Africa sub-sahariana.
Il fatto più sconcertante è che sul nostro pianeta sono presenti le risorse sufficienti a eliminare la povertà nel mondo, ma questo obbiettivo sembra non interessare molto, infatti, si stima, grazie alle proiezioni della Banca Mondiale, che la povertà nell’Africa sub-sahariana aumenterà notevolmente nei prossimi 8 anni, al contrario di altre zone come l’Asia e l’America latina in cui la povertà diminuirà.
Un altro dato proveniente sempre dall’UNDP, è quello riferito alle spese militari secondo cui si spende in media ogni anno 780 miliardi di dollari, quando per mantenere tutta la popolazione mondiale ne basterebbero solo circa 40.
A causa di questa drammatica situazione le persone che abitano zone così povere, sono costrette ad emigrare nei paesi più ricchi al fine di poter trovare fortuna o comunque un “ banale “ lavoro che possa far guadagnare loro qualche soldo per comprarsi almeno da mangiare.
Tutte queste motivazioni spingono quindi il fenomeno migratorio ad aumentare sempre più anche nei prossimi anni, perciò anche il numero di immigrati è destinato ad ampliarsi.
Tutti i paesi economicamente avanzati sono a rischio immigrazione sia di forma regolare o irregolare o di soggiorno.
L’Unione Europea struttura la libera circolazione interna su un controllo serrato e selettivo delle frontiere esterne. Così essa accetta solo un’apertura selettiva in base alla quantità di lavoro disponibile. Purtroppo nonostante l’ aumento dei controlli il numero di clandestini è ancora elevato e spesso essi devono affidarsi a trafficanti senza scrupoli.
In Europa l’immigrazione clandestina è difficilmente quantificabile e senza soluzione poiché grazie alle varie regolarizzazioni essa non è più temporanea ma permanente; inoltre gli interventi repressivi per gestire i flussi non sono sufficienti, infatti occorre anche una politica interna di integrazione collegata all’obbiettivo di legalità, oltre che a degli accordi internazionali.
Molto presente in Europa è l’economia informale che suscita  negli irregolari forte attrazione, fornendo all’economia stessa, manodopera clandestina, più flessibile e meno costosa.
Attualmente le migrazioni sostenute da potenti reti sociali, mantengono forti legami sia materiali che simbolici con i paesi di origine ostacolando così l’integrazione degli stessi nelle società accoglienti.
Anche noi contribuiamo alla loro non-integrazione, vedendoli come usurpatori di lavoro e tendendo ad escluderli dalla società; esistono due tipi di esclusione: passiva e attiva.
Quella passiva è tale perché viene condivisa con altri gruppi deboli appartenenti allo stesso ceto sociale: basso livello di vita e disoccupazione.
L’attiva si manifesta sotto forma di discriminazione che costringe la persona a vivere in sfere sociali e culturali marginali. Così l’esclusione può tradursi con la collocazione dei migranti in quartieri degradati o con l’ isolamento, che umilia la persona nei vari ambiti della sua vita sociale.
In conclusione è importante sottolineare che per eliminare i principali problemi dovuti all’ immigrazione è necessario eliminare il lavoro nero, l’impiego non regolare di manodopera qualsiasi sia la nazionalità.
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1.3 IL COLONIALISMO E LA DECOLONIZZAZIONE

Nella seconda metà del 900, i flussi migratori vanno verso il ricco occidente. Ma non è sempre stato così. Fino a poche decenni fa, erano gli occidentali che, in varie forme, si dirigevano verso i paesi del cosiddetto terzo mondo: si emigrava per necessità (gli strati sociali più bassi o i perseguitati per motivi religiosi), o gli Stati attuavano delle forme di conquista e occupazione di altri territori. Questo ultimo fenomeno viene chiamato colonialismo e da molti di questi paesi colonizzati oggi provengono i migranti che ci chiedono ospitalità.
Il colonialismo si definisce come l'estensione della sovranità di una nazione su territori e popoli all'esterno dei suoi confini, spesso per facilitare il dominio economico sulle risorse, il lavoro e il commercio di questi ultimi. Il termine indica anche l'insieme di convinzioni usate per legittimare o promuovere questo sistema, in particolare il credo che i valori etici e culturali dei colonizzatori siano superiori a quelli dei colonizzati. Infatti le prime forme di colonialismo avvennero già ai tempi dei Fenici fino a giungere all'età moderna, cominciata nel XVI sec., contemporaneamente alle esplorazioni geografiche europee e formalmente conclusosi nella seconda metà del XX secolo, con la vittoria dei movimenti anticoloniali.
Il colonialismo antico
La colonizzazione, cioè la fondazione di colonie su territori diversi e, spesso, lontani dalla madrepatria, è un fenomeno che risale ai Fenici e ai Greci, che in gruppi numerosi si spostavano dalle terre d'origine e andavano a vivere nei territori vicini e, successivamente, nelle regioni del Mediterraneo occidentale. Questo primo tipo di colonizzazione, determinato soprattutto da carestie, lotte politiche o ragioni di espansione commerciale, per il rifornimento di materie prime di cui la madrepatria era carente, prevedeva la fondazione di insediamenti stabili nei quali i cittadini che immigravano trasferivano il loro modo di vita, la loro civiltà, che si fondevano con quella delle popolazioni locali, dando origine a centri che sarebbero diventati fiorenti città. Diverse sono invece le forme del colonialismo romano, che è prevalentemente politico-militare, più che economico o demografico. L'espansione, attuata attraverso annessioni o sottomissioni, è determinata dall'esigenza di controllo dei confini, dell'acquisizione di terre da distribuire ai veterani e, solo in periodo imperiale, per motivazioni economiche e di ripopolamento dei territori conquistati, rimasti spopolati per il fenomeno d'inurbamento. Già dal III sec. a.C., con le guerre puniche, Roma sottomette popolazioni non italiche, fondando via via un impero, che nel suo massimo fervore si espande dalla penisola iberica al Reno, dal Marocco al Mar Nero. 

La scoperta dell’America…
Ora, tralasciando più di millecinquecento anni di storia occupata comunque da conquiste e combattimenti, giungiamo nel mondo europeo del XV sec. d.C. contraddistinto da grandi potenze pronte a lottare tra loro per ottenere un posto di predominio. Infatti nel 1492 fu scoperta l’America ad opera e all’insaputa del genovese Cristoforo Colombo, che avendo avuto il consenso dalla regina Isabella di Spagna e ricevuto in onore per l’impresa tre Caravelle, salpò dal porto di Palos in Portogallo per giungere via mare da Occidente le Indie, poiché Colombo credeva nella sfericità della terra. Questo viaggio doveva procurare alla Spagna ma anche a tutto il resto d’Europa un modo più veloce e meno costoso per continuare ad avere rapporti commerciali con l’Oriente e cioè le Indie. Purtroppo o per fortuna Colombo scoprì una nuova terra, l’America, anche se lui morì credendo di aver raggiunto la terra delle Indie.  
L’espansione europea dopo il 1492
Dopo il 1492 i paesi europei continuarono senza tregua ad espandersi conquistando sempre più paesi. La Spagna nel 1493 conquistò l’Hispaniola per poi occupare tutto il resto dell’America Latina, tranne il Brasile, di dominio portoghese, l’America Centrale e parte dell’Asia come le Filippine. Il Portogallo come già detto conquistò il Brasile divenuto poi indipendente nel 1815, occupò nel 1505 il Mozambico per poi spostarsi in Guinea, Angola, India Occidentale, Macao e le isole dell’Oceano Atlantico. La Francia occupò il Quebec in Canada perso formalmente come l’India nel 1757 come risoluzione alla Guerra dei Sette anni, la Guyana francese in America Meridionale e alcune isole caraibiche. Nel 1830 cominciò a interessarsi dell’Algeria, Senegal, Gabon, Tahiti, Vietnam, tutta la costa Occidentale africana dal Marocco al Congo imponendo a loro la propria autorità commerciale nei porti e nelle città. Conquistò anche zone della Cina e della Cambogia, ma nel 1962 l’Algeria divenne indipendente. Gli Inglesi nel 1607 fondarono in Virginia il primo insediamento permanente in America ma nel 1783 venne riconosciuta dal Trattato di Parigi l’indipendenza degli Stati Uniti. L’Inghilterra occupò parte del Canada, penisola della Terranova e Labrador, le isole delle Piccole Antille come il Belize, Giamaica e Bahamas. Dal 1753 si interessò dell’India anche e soprattutto per rapporti commerciali, Sri Lanka, Malesia, Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa, Hong Kong dopo la guerra dell’Oppio, e molti paesi di tutta l’Africa, che nel 1956 iniziarono il processo di Decolonizzazione.


Il cattolicesimo nel colonialismo
La Chiesa cattolica è stata aspramente criticata per la tolleranza alle brutalità commesse dal colonialismo europeo, in particolare riferendosi agli spagnoli ed ai portoghesi dove era estremamente influente, durante il periodo della conquista delle Americhe. Essa, tuttavia, spingeva le potenze coloniali affinché il movimento di scoperta avesse come fine principale l'evangelizzazione dei nuovi popoli e non lo sfruttamento. La diffusione del credo cattolico con ogni metodo talora fu utilizzato come giustificazione per eccidi di indigeni inermi, con la consenziente complicità dei preti missionari. Una prima ferma condanna della schiavitù dei neri fu emanata da papa Urbano VIII il 22 aprile del 1639. Nei fatti, la lotta contro la schiavitù fu portata avanti dagli ordini missionari e in particolar modo dai Domenicani, già un secolo prima durante l'evangelizzazione dei nativi americani. Una chiara e definitiva posizione contro il neocolonialismo occidentale dei tempi moderni è invece offerta dall'enciclica Mater et Magistra del 1961, un pilastro della Dottrina sociale della Chiesa cattolica.
L’Europa nel XIX  secolo
Tra il 1800 e il 1878 l’Occidente aveva cominciato a sviluppare politiche colonialiste sin dal XVI secolo, ma a partire dalla seconda metà del XIX secolo la conquista territoriale venne promossa sistematicamente dai centri di potere politico ed economico delle nazioni colonialiste. Questo fenomeno è stato definito dagli storici con il nome di imperialismo. La necessità di penetrare nei mercati internazionali e la comparsa sulla scena del capitalismo finanziario, avrebbero così trovato un complemento perfetto nelle politiche espansionistiche promosse da parte dei governi. La progressiva sostituzione del protezionismo doganale con politiche di libero scambio contribuì in seguito ad accelerare il processo in atto. Un’altra spiegazione dell’imperialismo è che questo servì a trasferire nelle colonie le tensioni createsi nelle società occidentali. Le potenze europee, erano convinte della necessità di allargare i loro domini allo scopo di assicurarsi fonti di materie prime e aprire nuovi mercati per rafforzare l’industria e il commercio internazionale. Questa politica imperialista, basata sulla supposta missione civilizzatrice che l'uomo bianco aveva il dovere di compiere nei confronti dei popoli subalterni, non ottenne solo l’approvazione della borghesia occidentale. Nel XIX secolo, anche la sinistra parlamentare europea appoggiava la colonizzazione, ma sottolineandone gli aspetti umanitari. L'imperialismo si diffuse soprattutto in Africa, nel sud-est asiatico e in Cina, attraverso l’Oceano Pacifico e dagli Stati Uniti nell'America centrale e nei Carabi. Le nazioni che godevano di ricche tradizioni e che erano depositarie di culture molto antiche, come la Persia, la Cina, l’India e l’impero ottomano subirono considerevoli restrizioni nell’ambito della loro sovranità e una spiccata dipendenza, nei riguardi delle potenze colonialiste. La Gran Bretagna fu una dei principali agenti di questo processo di espansione e si voleva impossessare del monopolio dei mercati internazionali grazie alla sua politica estera ma indusse le altre potenze europee a una sfrenata corsa per la conquista delle fonti di materie prime e di nuovi mercati per i loro prodotti. Questa circostanza fu la causa di un’intensa epoca imperialista, nella quale le dispute per i nuovi territori condussero con frequenza a conflitti armati tra le potenze colonialiste.
La decolonizzazione
Per decolonizzazione si intende il processo, quasi mai pacifico, attraverso il quale un paese, occupato stabilmente da un altro ed espropriato per questa via delle proprie risorse e della propria cultura, si sottrae al dominio dell'occupante e riconquista autonomia e libertà. Pur essendosi date, storicamente, varie forme di dominio di un popolo su un altro, nella storia moderna si parla di decolonizzazione esclusivamente a proposito del processo di uscita di paesi extra-europei dal fenomeno del colonialismo. Se si assume questo punto di vista è del tutto improprio considerare, come alcuni fanno, la guerra di indipendenza americana dall'Inghilterra come il primo episodio di decolonizzazione della storia contemporanea. Si deve parlare in quel caso, assai più propriamente, di una rivoluzione di colonizzatori, residenti nel nuovo territorio, contro il potere costituito residente nella madrepatria, seguita da una secessione. Analoghi movimenti di indipendenza di colonizzatori rispetto alla madrepatria si ebbero, nel XIX secolo, nelle colonie spagnole e portoghesi dell'America Latina (Brasile, Cuba, Filippine), tutti di matrice culturale europea. Tutt’altra questione è il processo di decolonizzazione che si avviò alla fine della seconda guerra mondiale nei territori e da parte dei popoli che Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Germania e Italia avevano colonizzato in Asia e in Africa e non solo. In quasi tutte le colonie si erano moltiplicate le richieste di indipendenza, finite talvolta in vere e proprie ribellioni. Molti giovani dei paesi colonizzati avevano avuto la possibilità di compiere studi in Europa, venendo così a contatto con gli ideali di libertà e giustizia. Essi diedero origine a nuove classi dirigenti indigene che si ponevano in alternativa a quelle dei colonizzatori, che si impegnarono a prendere in mano l'economia dei propri paesi e a rendere le popolazioni delle ex colonie più consapevoli della loro dignità culturale e civile. Il processo di decolonizzazione non fu semplice, in Asia, per esempio, la decolonizzazione si prolungò per molto tempo, giungendo a compimento tra gli anni Settanta e Ottanta. Ad esempio gli Inglesi erano molto affezionati alle loro colonie ma non avevano problemi ha dare il potere decentrato ad alcune nazioni come l’Australia e il Canada indipendenti la prima nel 1901 e la seconda nel 1931. L’Inghilterra aveva più difficoltà ha liberarsi dell’Egitto, India o Nigeria perchè ricche di materie prime comunque anche l’opinione pubblica era preparata a ciò, cioè alla perdita delle colonie estere. La Francia vittima del suo imperialismo tardo napoleonico non ne vuole sapere di perdere le proprie colonie ed assume un ruolo di disturbo per tutte le nazioni europee e non vuole entrare a far parte della NATO. Infine parliamo degli Americani che non avevano le colonie ma possedevano protettorati, e durante la seconda guerra mondiale  avevano favorito la nascita di movimenti nazionalistici, partigiani in Africa e in Asia Orientale. Il processo di decolonizzazione  non creava nessun disturbo all’America ma comunque voleva delle contropartite, ad esempio assumere un ruolo più attivo nelle regioni dei protettorati poiché gli Americani non sono protezionisti ma volgono all’offensiva.
Il colonialismo italiano
I paesi europei che hanno partecipato alla spartizione dell'Africa, si sono macchiati, tutti, indistintamente, dei peggiori crimini. E' un dato suffragato da episodi sui quali esiste, una documentazione imponente. Le stragi di popolazioni africane  continuarono anche dopo la seconda guerra mondiale, quando il periodo coloniale sembrava ormai concluso. Tanto nel periodo della liberal-democrazia che durante i vent'anni del regime fascista, il comportamento dell'Italia nelle sue colonie di dominio diretto non fu dissimile da quello delle altre potenze coloniali. Impiegò i metodi più brutali sia nelle campagne di conquista che nel periodo successivo, stroncando ogni tentativo di ribellione. Con l'avvento del fascismo, poi, le condizioni dei sudditi coloniali si fecero ancora più precarie, soprattutto perché fu messa a tacere in Italia l'opposizione, tanto in Parlamento che negli organi di informazione. Grazie infine alle più capillari pratiche censorie, furono tenuti nascosti agli italiani episodi di inaudita gravità. come, ad esempio, la deportazione di intere popolazioni del Gebel cirenaico, la creazione nella Sirtica di quindici letali campi di concentramento, l'uso dei gas durante il conflitto italo-etiopico, le tremende rappresaglie in Etiopia .Quando Mussolini arrivò al potere, la riconquista della Libia era appena iniziata, mentre sulle regioni centrali e settentrionali della Somalia il dominio italiano era soltanto virtuale. A Mussolini, più che ai suoi generali, va dunque la responsabilità di aver adottato i metodi più crudeli per riconquistare le colonie pre-fasciste e per dare, con l'Etiopia, un impero agli italiani.
- L'impiego degli aggressivi chimici. I gas vennero impiegati in maniera massiccia e sistematica durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36 e nelle successive operazioni di «grande polizia coloniale» e di controguerriglia.Le prime bombe chimiche furono lanciate sul finire del 1935 per bloccare l'avanzata dell'armata etiopica
- I campi di sterminio. Con il fascismo le vessazioni nei confronti degli indigeni raggiunsero livelli mai prima segnalati. Dall'esproprio dei terreni, dalla confisca dei beni dei «ribelli», dal diffuso esercizio del lavoro forzato, si passò alla deportazione di intere popolazioni e alla loro segregazione in campi di concentramento, che soltanto la cinica prosa dei documenti ufficiali aveva il coraggio di definire «accampamenti».
- Le stragi. L'intera storia delle conquiste coloniali italiane è punteggiata da stragi e da esecuzioni sommarie. Oltre alla strage in Addis Abeba, la repressione continuò in tutte le altre regioni dell'impero. Si dava soprattutto la caccia agli indovini e ai cantastorie, ritenuti responsabili di aver annunciato nelle città e nei villaggi la fine prossima del dominio italiano in Etiopia. Questa non è che una sintesi molto lacunosa dei torti che l'Italia fascista ha fatto alle popolazioni africane da essa amministrate. Dovremmo infatti anche parlare delle leggi razziali, che confinavano gli indigeni nei loro ghetti, anticipando di vent'anni i rigori e gli abusi dell'apartheid sudafricana. Dovremmo ricordare i limiti imposti all'istruzione, tanto che in settant'anni di presenza italiana in Africa nessun indigeno ebbe la facoltà e i mezzi per ottenere un diploma o una laurea. Dovremmo infine ricordare che ai sudditi africani erano riservati soltanto ruoli subalterni, i più modesti ed umilianti. Questi crimini furono accuratamente nascosti agli italiani con tutti gli strumenti di cui può disporre una dittatura . Il mito degli «italiani brava gente» cominciò ad affermarsi quando ancora l'Italia era impegnata in Africa a difendere i suoi territori. Se si sfogliano le riviste coloniali dell'epoca si nota l'insistenza con la quale il regime fascista cercava di accreditare la tesi dell'italiano impareggiabile costruttore di strade, ospedali, scuole; dell'italiano che in colonia è pronto a deporre il fucile per impugnare la vanga; dell'italiano gran lavoratore, generoso al punto da porre la sua esperienza al servizio degli indigeni. Si tentava, insomma, di costruire il mito di un italiano diverso dagli altri colonizzatori, più intraprendente e dinamico, ma anche più buono, più prodigo, più tollerante. Insomma il prodotto esemplare di una civiltà millenaria, illuminato dalla fede cattolica, fortificato dalla dottrina fascista. Questo mito sopravviverà alla sconfitta nella seconda guerra mondiale e impregnerà tutti i documenti che i primi governi della Repubblica presenteranno alle Nazioni unite o ad altre assise internazionali nel tentativo, fallito, di salvare, se non tutte, almeno le colonie prefasciste.


1.4 FLUSSI E MOTIVAZIONI

I flussi migratori

In questa parte affronteremo il fenomeno dell’immigrazione, focalizzando la nostra attenzione su come i flussi migratori si sono modificati nel corso del tempo. L’emigrazione non è un fenomeno del tutto nuovo: quello moderno risale infatti al 1500. Nel corso degli anni, il fenomeno si è largamente ampliato anche a causa delle varie motivazioni che spingono questi individui a lasciare il proprio paese d’origine. Le principali possono essere di origine naturale o sociale (e tra queste, economiche, politiche, militari, religiose ecc.). I cambiamenti climatici, le eruzioni vulcaniche, le inondazioni, le carestie, i bradisismi e i maremoti sono esempi di fattori naturali. Fra le cause sociali invece si possono annoverare la ricerca di un miglioramento della condizione economica, la scarsità di cibo (dovuta alla crescita demografica oppure ad altri motivi), le invasioni militari e le guerre, la ricerca della libertà religiosa e politica. Le grandi migrazioni internazionali sono state sin dagli inizi il principale fattore che ha concorso alla formazione dell'attuale sistema mondiale, che della cosiddetta "globalizzazione" costituisce la necessaria premessa. La scelta dei percorsi migratori fu solitamente condizionata sia dalla tendenza a ricercare luoghi affini a quelli abbandonati, sia dalla presenza di barriere e vincoli ambientali, come fiumi, deserti, catene montuose e condizioni climatiche dei territori da attraversare. La steppa e la tundra artica, che si estendono dall'Europa centrale all'oceano Pacifico, costituirono il territorio ideale per le migrazioni nell'asse est-ovest. Furono invece molto rare le migrazioni dai tropici alle aree temperate e viceversa. Il deserto del Sahara ostacolò la migrazione verso l'Africa centrale; analogamente il sistema montuoso dell'Himalaya impedì le migrazioni verso il subcontinente indiano. La penisola del Sinai invece, collegata a est con la penisola arabica, fu un luogo naturale di collegamento tra il continente africano e quello asiatico. In epoca moderna, con lo sviluppo delle esplorazioni geografiche e della navigazione, le barriere naturali influirono sempre di meno e si verificarono grandi migrazioni transoceaniche soprattutto  tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Nel corso di questo secolo il flusso migratorio non si è praticamente mai arrestato, né si arresterà a breve termine. A partire dal secondo dopoguerra il processo di ricostruzione e il successivo sviluppo industriale determinarono lo spostamento di decine di milioni di persone, infatti il numero delle persone che vivono in un paese diverso dal proprio sarebbe passato dai 75 milioni del 1965 ai 120 milioni del 1990 e ai 150 milioni del 2000.
Non sono comunque solo i dati numerici a cambiare, ma anche i paesi d’emigrazione, diventati molto più numerosi a partire dagli anni ’80. Tra i principali troviamo quelli del Sud-est asiatico, in particolare Cina e Filippine, ma anche Messico, Cuba e Haiti. In Africa del nord e Medioriente i principali paesi d’emigrazione sono Maroc­co, Turchia e Yemen. Sebbene queste ondate migratorie sollevassero forti problemi sociali, di rado determinarono scontri tra le popolazioni autoctone e quelle immigrate, alle quali anzi vennero offerte discrete possibilità di integrazione.  Aumentando il numero dei paesi di emigrazione, anche i paesi di accoglienza sono diventati più numerosi. I due principali paesi di “attrazione” sono soprattutto l'America del Nord e l'Europa occidentale, che contano rispettivamente 25 milioni di immigrati e 15 milioni.
Anche l’Italia, paese d’origine di numerosi emigrati che si sono trasferiti principalmente nel resto d’Europa e in America, ha recentemente conosciuto il fenomeno dell’immigrazione da parte di popolazioni provenienti da diversi paesi, in particolare l’Africa, l’Europa orientale e il Sud-Est asiatico. Nel 1980, i cittadini stranieri che risiedevano regolarmente in Italia erano meno di 300.000. Oggi, secondo le ultime stime, sono circa due milioni e mezzo e rappresentano il 4% della popolazione nazionale.
Nel complesso, è l'Europa il primo continente per numero di presenze di stranieri, con più di 640.000 immigrati. Di questi, oltre 450.000 sono cittadini provenienti dai Balcani e dall'Est europeo, che da soli rappresentano il 30 per cento degli immigrati residenti. Il secondo continente è l'Africa, con il 26,5 per cento delle presenze straniere, seguita dall'Asia (18,5%), dall'America (11,8%) e, fanalino di coda, dall'Oceania (0,17%).
L’intensità del flusso migratorio (seppur inferiore rispetto a quello di altre nazioni), le difficili condizioni economiche interne e la mancanza di adeguate infrastrutture hanno determinato un difficoltoso inserimento degli immigrati nella società italiana, provocando sentimenti di intolleranza e talvolta deplorevoli episodi di razzismo.

Le motivazioni che spingono a migrare

L’Italia ha modificato il proprio ruolo all’interno del contesto passando da paese di emigrazione a paese di immigrazione e molta attenzione è stata rivolta alle cause di questo fenomeno. Come sostiene Valerio Castronuovo, ordinario di storia contemporanea dell’Università di Torino, non è sufficiente affermare che i “poveri del mondo” emigrano in Italia semplicemente per aspirare a migliori condizioni di vita. Inoltre, nelle società sviluppate l’invecchiamento della popolazione apre spazi sempre più ampi alla domanda di lavoro non più soddisfatta dalla manodopera locale e nazionale.
Dopo il Nord America e l’Australia, anche l’Europa è diventata meta di sempre più numerosi flussi migratori dai paesi del Terzo Mondo. I decenni successivi al secondo dopoguerra videro paesi perlopiù mediterranei (Italia, Spagna e Portogallo) emigrare verso i paesi nord-occidentali del Vecchio Continente. Per quanto riguardava, invece, i paese provenienti dall’esterno dell’Europa, ad emigrare erano maggiormente i paesi ex-coloniali della Francia, della Gran Bretagna, del Belgio e dell’Olanda, fatta eccezione per la Turchia. Dopo gli anni Ottanti, da esportatori di manodopera, sono diventati aree d’insediamento per lavoratori migranti, proprio perché, come dicevamo prima, questi paesi sono entrati a far parte della società sviluppate e industrializzate. L’estrema miseria delle zone più emarginate del mondo, l’attrattiva esercitata dall’alto tenore di vita dell’Occidente e la domanda di lavoro proveniente dalle società sviluppate sono le cause con le quali noi giustifichiamo i flussi migratori. Ma non possiamo ridurre a queste cause un fenomeno che è sempre più crescente, non solo nel nostro paese. Questo fenomeno è sempre in maggior evoluzione, sono oltre quindici milioni gli immigrati approdati nei paesi dell’Unione Europea. Si pensa che in futuro questo fenomeno assumerà proporzioni sempre più ampie; non saranno solo i magrebini dell’Africa del Nord e popolazioni dell’est Europeo a sbarcare nel nostro continente, ma anche i popoli delle regioni sub-sahariane in via di desertificazione, delle regione sottosviluppate dell’America del Sud o ragioni come il Bangladesh, il Pakistan e lo Sri Lanka. Ovvero popolazioni costrette a tirare avanti ogni giorno con espedienti impensabili e maggiormente esposte a vecchie e nuove malattie endemiche, guerre e violazione dei diritti umani. Castronuovo aggiunge che dall’altra parte, gli occidentali hanno sì bisogno di forza lavoro, ma allo stesso tempo continuano ad avere radicata l’idea che gli immigrati portino via lavoro agli autoctoni e che essi vivano a scapito dell’assistenza pubblica. L’arrivo di immigrati nella nostra società ci permetterebbe di svilupparci di più dal punto di vista economico e commerciale, ma vengono a crearsi grossi problemi di convivenza sociale. Abbiamo quindi capito che molto spesso non si tratta di una scelta ma di una vera e propria necessità.  
Oltre a questi motivi di natura sociale ed economica si aggiungono anche altre cause per le quali gli extracomunitari decidono di lasciare il paese nel quale sono nati, a volta mettendo in pericolo la propria vita. Un motivo è il ricongiungimento famigliare, soprattutto per i popoli dell’America centro-meridionale, dell’America settentrionale (52%), ed in misura minore, per i paesi come l’Albania e la Macedonia (36%). Per motivi di studio si trasferiscono maggiormente i cittadini provenienti da Israele, Libano e Iran. Mentre per motivi religiosi emigrano ben cittadini dell’Oceania e dell’Africa centro Meridionale, ma anche i cittadini canadesi e i paesi appartenenti all’Unione Europea.
Raffaella Biasi, insegnante e esperta di culturale orientale, in un’intervista ha esposto quali secondo lei erano le cause per le quali i cittadini, soprattutto quelli di religione islamica, emigrano verso l’Occidente. Secondo la sua opinione i veri problemi sono l’oppressione, il controllo sociale e la mancanza di libertà. La società islamica controlla se stessa con le rigide regole provenienti dalla religione e il governo favorisce il controllo sociale per mantenere, traendo vantaggi lui stesso, la situazione attuale, che vede la minoranza dei ricchi rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione povera. Questo controllo sociale impedisce alle masse di evolvere, portando avanti tradizione che ormai non stanno più al passo con l’evoluzione del mondo.
Le cose cambiano per i minori, le cause che li portano ad emigrare sono altre. Secondo una ricerca fatta da Pianeta Infanzia nel 1998, la prima causa dell’arrivo di minori è senza dubbio legata ai ricongiungimenti famigliari. I minori in alcuni casi seguono la famiglia nel loro progetto immigratorio sin dall’inizio, altri invece vengono ricongiunti in un secondo momento. La seconda ragione vede il 22.1% dei minori in attesa di adozione o affidamento. Altre cause sono legate a motivi di lavoro, di studio, di salute o di carattere giudiziario.
Ferruccio Pastore, vicedirettore del Centro Studi di Politica Internazionale, ha studiato il fenomeno dell’immigrazione da un punto di vista psicologico. L’emigrazione, secondo lui, è una perdita individuale sia per chi parte sia per chi resta. Questo aspetto, però, non sempre viene a galla, perché la voce dei migranti non riesci a farsi sentire, o per la maggior parte dei casi, non viene nemmeno ascoltata. Questo silenzio, a volte, raggiunge punte drammatiche. Secondo una ricerca svolta su una comunità tunisina in Sicilia, molti immigrati, rimanendo delusi dalla loro “avventura” decidono di non fare più ritorno a casa, proprio perché provano vergogna e scoraggiamento. Non bisogna però cadere nell’errore sostenendo che solo una parte degli immigrati, quelli poveri ed emarginati, provano sofferenze e frustrazioni. Infatti anche i benestanti o comunque gli extracomunitari che, ai nostri occhi, hanno avuto più fortuna, vanno incontro ad un percorso individuale senza sapere quello che li attende. Questo perché l’immigrazione segna una discontinuità psicologica ed esistenziale, come dice Pastore, che l’immigrato nasconde. Infatti, pur essendo ai nostri occhi spensierato e avventuroso, chi parte lo fa con speranza e orgoglio, ma allo stesso tempo con dolore e sensi di colpa.
La scelta migratoria è frutto di fattori di espulsione, che si manifestano nel paese d’origine, e fattori di attrazione, presenti nel paese di destinazione che affascinano gli immigranti. Inoltre, essa ha sempre due facce: si è speranzosi per quel “meglio” che si potrebbe trovare, ma si è anche sofferenti per quel “peggio” che si lascia, ma a cui si appartiene. Il migrante quando decide di abbandonare il suo paese per una promessa di miglioramento, si distacca da un universo culturale che, seppur soffocante, è allo stesso modo rassicurante e conosciuto. Quando l’immigrato arriva nel nuovo paese, va incontro ad una serie di effetti, come ad esempio quelli economici: gli immigrati spesso coprono settori abbandonati dalla manodopera locale, favoriscono la flessibilità del lavoro impedendo a non poche fabbriche di chiudere e risultando così funzionali al sistema economico dei Paesi di destinazione. Inoltre si ha la perdita dell’identità culturale: ad esempio l’infermiera diplomata filippina, arrivando in Italia ricoprirà un ruolo sociale inferiore come quello di badante, poiché il suo grado d’istruzione e il suo status non vengono riconosciuti. Così facendo il paese ospitante potrebbe correre il rischio di perdere esperti in ogni campo lavorativo. Ciò avviene soprattutto nelle società in cui gli strati inferiori della popolazione trovano difficoltà ad elevarsi socialmente. Questi problemi non sono certamente favoriti dal comportamento della popolazione accogliente, che non accettano l’arrivo di extracomunitari in cerca di fortuna vedendoli come approfittatori e come persone che vogliono farsi considerare vittime.


CAPITOLO 2

LA NUOVA SOCIETA’ MULTICULTURALE

Ø 2.1 LA SOCIETA’ MULTICULTURALE                                            
Ø 2.2 L’IDENTITA’ CULTURALE                                                         
Ø 2.3 L’INTEGRAZIONE                                                                       
Ø 2.4 I MODELLI DI CONVIVENZA                                                   
Ø 2.5 MULTICULTURALISMI: HABERMAS VS TAYLOR              
Ø 2.6 SCUOLA E INTERCULTURA                                                      
Ø 2.7 LE SITUAZIONI PONTE E LA FAMIGLIA IMMIGRATA       
Ø 2.8 IL LAVORO                                                                                    ¨           
- Le professioni più richieste                         
- L’opinione                                                        
- La bussola del lavoro immigrato                                                   
- Il fenomeno: le badanti                                                
Ø 2.9  LE LEGGI SULL’IMMIGRAZIONE IN ITALIA                               


2.1 LA SOCIETA’ MULTICULTURALE
La storia dell’umanità è caratterizzata dal movimento e dalla creazione continua di reti e intrecci tra persone provenienti da contesti geografici diversi. Ci sono stati periodi storici particolarmente fertili per questi scambi: il medioevo islamico, con gli arabi che interpretavano il ruolo di mediatori culturali (preceduti da altre popolazioni semitiche), facendo del sud del Mediterraneo una “piattaforma girevole” di collegamento tra diverse aree geografiche; poi, il rinascimento europeo con le sue progressive inclusioni di popolazioni di altri continenti che ha inaugurato il “sistema-mondo” con il quale ci confrontiamo ancora oggi. Gli attuali processi di globalizzazione determinano intensi processi migratori dal sud del mondo e dall'Est europeo verso i paesi dell'Occidente "sviluppato". Le culture sono fluide e gli individui interpretano attivamente le loro tradizioni rinnovandole per poter gestire i cambiamenti che le relazioni con gli altri inevitabilmente comportano. Ci sono vari motivi per i quali ogni cultura è “multiculturale”: perchè in essa sono riscontrabili sedimenti provenienti da luoghi e da popoli diversi (il cristianesimo, ad esempio, ha radici nel vicino oriente) e perché possono coabitare diversi gruppi linguistici, culturali, religiosi anche vivendo nel medesimo spazio territoriale (un esempio può essere dato dalla presenza di diverse lingue e dialetti nella regione del Trentino Alto-Adige).
La multiculturalità si ricollega all’idea di una pari dignità e all’idea che ciascun essere umano ha diritto ad avere una cultura che sia la propria e non quella prevalente nel contesto sociale entro il quale vive. Le società multiculturali sono sempre esistite, basta pensare ai grandi imperi del passato. La società multiculturale è un sistema sociale in cui convivono soggetti con identità culturali diverse: con ciò si intende l'appartenenza consapevole a un gruppo che condivide uno spazio geografico di provenienza, una comune discendenza, una cultura condivisa. Siamo ormai di fronte ad una società che sta diventando multietnica e multiculturale, molte sono le situazioni di incontro e confronto tra persone che appartengono a culture diverse. Persino i bambini immigrati rappresentano una presenza reale nelle nostre scuole. La diversità deve essere considerata una risorsa, arricchimento in vista di una convivenza basata sulla cooperazione, lo scambio, l’accettazione produttiva delle diversità come valori ed opportunità di crescita democratica.
La principale causa che crea società multiculturali è rappresentata dal fenomeno delle migrazioni internazionali. Immediatamente connesso con questo tipo di sistema sociale è il problema della regolazione della convivenza tra minoranze e maggioranza, o tra immigrati e società d'accoglienza. Se, come detto, ciascun essere umano ha diritto ad avere una cultura che sia la propria e non quella prevalente nel contesto sociale entro il quale vive, anche l’immigrato ha il diritto di mantenere la propria cultura all’interno del contesto sociale in cui viene ospitato.
In Europa risiedono circa 20 milioni di immigrati extracomunitari e nell'Unione Europea l'Italia è ormai al quarto posto, per numero di immigrati, dopo Germania, Francia e Gran Bretagna. La presenza nel nostro paese di uomini e donne provenienti dai paesi del Sud del mondo e dell'Est europeo sta lentamente modificando aspetti centrali della nostra vita: nel mondo del lavoro, negli insediamenti abitativi, nel confronto tra le fedi religiose, nei gusti e nei consumi, nel sistema dei media, nella scuola, tra le pareti domestiche, l'Italia è diventata una società multietnica. E’ bene ricordare, però, che il multiculturalismo non è creato dalla presenza degli immigrati. Essi aggiungono altre differenziazioni a quelle già esistenti in ogni società e contribuiscono casomai a renderle più visibili. Coloro che non accettano la multiculturalità di una società attuano comportamenti discriminatori e razzisti nei confronti di coloro ritenuti “diversi” e “inferiori”, senza rendersi conto che all’interno della propria società esistono già molteplici differenze tra tutti gli individui.

2.2  L’IDENTITA’ CULTURALE
La cultura è l’elemento distintivo del genere umano; si applica a tutti i membri della società. Non c’è persona senza cultura e non c’è cultura senza persona; essa è trasmessa, attraverso il processo di inculturazione, acquisita, rielaborata, personalizzata.  Ciascuno di noi appartiene a una determinata cultura e quindi ha un’identità culturale, e quindi esiste una sorta di rapporto tra cultura e individuo.
Possiamo trovare vari tipi di identità:
§  Identità culturale
§  Identità nazionale → per gli abitanti di un determinato paese
§  Identità multipla o sociale→ tutti noi rivestiamo più ruoli
§  Identità di genere→ il modo in cui un individuo percepisce il proprio genere: questa consapevolezza interiore porta a dire "io sono uomo" o "io sono donna".

Il concetto di identità riguarda, per un verso, il modo in cui l'individuo considera sé stesso come membro di determinati gruppi: nazione, classe sociale, cultura, etnia, genere, professione, e così via; e, per l'altro, il modo in cui i codici di quei gruppi consentono a ciascun individuo di pensarsi, muoversi, collocarsi e relazionarsi rispetto a sé stesso, agli altri, al gruppo cui afferisce ed ai gruppi esterni intesi, percepiti e classificati come alterità. Quindi l’identità, in sostanza, è la forma che la cultura, intesa come patrimonio di idee, valori, norme orientamenti, assume dal momento in cui, in seguito al processo di inculturazione e socializzazione, entra a far parte del sistema culturale di riferimento del soggetto. Questa assume tre caratteri principali:
§  Dinamico (la formazione dell’identità è un processo dinamico).
§  Interattivo (oggi sempre più scelta e non destino).
§  Attivo (il soggetto partecipa alla creazione di una cultura nuova).
Appurato il concetto di identità, possiamo delineare quali sono le principali differenze che vi sono tra gli individui. Il colore della pelle, degli occhi o dei capelli, il tipo di corporatura, la forma dei lineamenti, e così via, dipendono dal patrimonio genetico che ciascuno eredita dai propri genitori; i tratti caratteriali, variabili da persona a persona, in parte sono determinati dall'ambiente e dall’educazione ricevuta. Appare evidente come, riferendosi alle persone, la cultura attraverso la quale le singole persone a livello individuale e collettivo formulano le proprie scelte e orientano i propri comportamenti, coincide con la loro identità culturale.
In sostanza, non esiste cultura che non è sempre incarnata in identità condivise a livello di gruppo più o meno ampio. Da questo punto di vista l’analisi delle identità è sempre un’analisi più precisa, non esistendo mai contenuto, orientamento che non si riferisce a soggetti singoli o collettivi di ieri, di oggi, di domani. Se, dunque, non c’è cultura senza le persone, ne consegue che ogni persona nel suo agire, opera secondo un’identità culturale che acquisisce, definisce, modifica e ridefinisce lungo tutta la sua esistenza attraverso un processo culturale ben definito che dura tanto quanto l’esistenza stessa. Estremamente pericoloso è l'uso che dell'identità può fare la politica, per esempio nel caso del nazionalismo spinto all'eccesso, che lega sentimenti di appartenenza a lealismi verso un determinato apparato statale, non di rado conculcando minoranze e spingendo a manifestazioni di xenofobia e a conflitti con paesi confinanti esterni intesi, percepiti e classificati come alterità.

2.3  L’INTEGRAZIONE
Una delle maggiori sfide che si prospettano al nostro Paese consiste in una migliore integrazione degli stranieri che vi risiedono. L'integrazione è un compito globale che la società, le autorità, nonché le organizzazioni per gli stranieri sono chiamate a realizzare insieme. L'integrazione va intesa come processo reciproco. Essa presuppone la disponibilità delle persone straniere ad integrarsi, come pure un atteggiamento d'apertura da parte della popolazione autoctona. L'integrazione mira a garantire le medesime opportunità d'accesso alle risorse sociali ed economiche. L'integrazione comporta tutti gli sforzi volti a promuovere la comprensione reciproca tra popolazione ospitante e popolazione straniera. La convivenza basata su valori e comportamenti comuni, l'informazione degli stranieri circa le nostre strutture, organizzazioni, prescrizioni legali e condizioni di vita nonché la creazione di condizioni generali favorevoli onde garantire agli stranieri nel nuovo paese le stesse opportunità di cui godono gli autoctoni e la possibilità di partecipare alla vita sociale, costituiscono altrettanti obiettivi centrali.
I processi di integrazione avvengono all’interno di una società e precisamente in quella istituzione di massa conosciuta come scuola. Ci si riferisce alla scuola moderna, ovvero a quella sviluppatasi dopo la seconda guerra mondiale. Tra gli obbiettivi prefissati da essa, vi è appunto l’integrazione, la quale dagli anni 60/70 prevede le classi svantaggiate, dagli anni ‘80 i portatori di handicap, e oggi, vista la diffusione del fenomeno, prevede anche gli stranieri. Infatti in questi anni quando si parla di integrazione, si è portati a pensare alla persona immigrata e invece questo tema deve essere conosciuto e affrontato in relazione anche ad altri casi. La scuola permette anche ai ceti svantaggiati un minimo di istruzione e permette a colui che parte svantaggiato, di entrare in classi normali come tutti gli altri individui. Essa toglie dunque ogni differenza. Dagli anni ‘70 vengono abolite le classi differenziali e la grande sfida che questa istituzione ha dovuto affrontare è stata quella di integrare i portatori di handicap. Essi sono messi alla pari con tutti gli altri cittadini e devono potersi muovere liberamente all’interno della società (vengono abolite le barriere architettoniche); essi vengono messi nelle condizioni di potersi integrare socialmente e scolasticamente. Vediamo pertanto come l’integrazione tenda a colmare la distanza che separa queste persone, che siano essi stranieri, portatori di handicap o le classi svantaggiate dalla società, e permettere loro di poter utilizzare gli stessi strumenti di chi ha più di loro. Inoltre nel nostro percorso scolastico abbiamo studiato e visto come la pedagogia interculturale mette in risalto il fattore cultura e quindi come essa risulta essere importante per il tema in questione. Con gli stranieri la particolarità della pedagogia è affrontare la diversità culturale nel modo più corretto possibile. A conclusione di quanto detto, non si può pensare al concetto di integrazione se in una società non viene trattata l’intercultura.
In riferimento al tema di fondo, rientra anche la famiglia immigrata: una famiglia che lascia il proprio paese per motivi economici e sociali per trasferirsi in una nuova dimensione sociale, con una propria cultura nettamente differente da quella della terra d’origine. Essa funge da ammortizzatore sociale a causa di traumi psicologici, morali e sociologici. Questi influiscono sulla fragilità della famiglia in emigrazione. Per permettere l’integrazione nella nuova realtà, spesso i ruoli famigliari devono essere ristrutturati, soprattutto il ruolo del maschio e della donna. Il membro famigliare che solitamente riscontra maggiori difficoltà per questo cambiamento è il bambino, in quanto non ha difese né strumenti e né strutture con le quali inserirsi nella società e relazionarsi con altre culture, mentre gli adulti portatori di una cultura stabile e ormai affermata presentano molto meno difficoltà nell’integrarsi. Integrarsi non significa perdere l’identità culturale d’origine, ma mantenerla e saperla relazionare in modo efficace e produttivo con altre realtà.





2.4  I MODELLI DI CONVIVENZA
Il fatto di entrare nel territorio di un altro Paese significa anche l’entrata nella sfera giuridica che regola la vita del popolo ospitante e qualunque sia la legge vigente, il musulmano immigrato deve rispettarla e agire secondo le sue esigenze. Questo rispetto deve essere una cosa fondamentale per i musulmani che vivono in Europa, soprattutto perché la legge permette loro di muoversi, di lavorare e di praticare le loro credenze senza nessun ostacolo. Di rilevante importanza quindi è il problema dell' Islam, visto come un pericolo soprattutto dopo gli attentati dell'11 settembre in America; infatti si tende ad associare la religione islamica al terrorismo, non considerando che non è dominato da un approccio fondamentalista e senza tener conto delle altre numerose religioni presenti nel nostro Paese, come ad esempio quella ortodossa che raggruppa un altrettanto rilevante numero di persone. Gli immigrati musulmani sono al centro di polemiche anche per quanto concerne la questione del velo. Infatti sui giornali italiani troviamo spesso articoli che parlano del velo indossato da alcune donne musulmane. Il velo è un simbolo rappresentativo del confronto tra culture, usi, costumi e legislazioni diversi. Il dibattito in Italia si è acceso maggiormente a seguito dell’episodio di una donna che a causa del velo che non è stata ammessa in un asilo dove doveva svolgere un tirocinio. Il governo italiano in questo caso si è schierato a favore della donna e della sua riammissione. La questione è ancora molto viva e ci saranno sicuramente altri episodi che racconteranno di donne velate nelle nostre città e che contribuiranno a vivacizzare la discussione. Tale questione coinvolge l’opinione pubblica e i governi non solo italiani ma anche di tutti gli Stati europei chiamati a prendere posizione sulla questione. Per risolvere un contenzioso che si trascinava da tempo, il governo francese ha deciso di introdurre una legge ad hoc che vieta l’ostentazione in classe di simboli religiosi, includendovi il velo. C'è la necessità di promuovere una sempre maggiore integrazione degli immigrati nelle società europee, infatti esistono idee e strategie assai diverse sui modi per realizzarla.
Il modello assimilazionista, adottato in Francia, muove dal presupposto che l'appartenenza alla comunità nazionale debba fondarsi sulla condivisione di ideali e di tradizioni comuni. In questo modello, la libertà, la condizione che lo Stato ha la funzione di assicurare ai propri cittadini, è strettamente associata, identificata, all'eguaglianza senza badare alle loro specificità legate a tradizioni, religioni, linguaggio o colore della pelle. Lo Stato deve garantire l'eguaglianza individuale e quindi non può tollerare, né tanto meno favorire, richieste di riconoscimento di diritti collettivi e sistemi di trattamento differenziato in base a una qualche forma di appartenenza. L'eguaglianza dei propri cittadini consiste nella piena accettazione delle regole e dei principi del Paese ospitante, ad esclusione della sfera privata. Questo modello suscita tuttavia alcune critiche: difficilmente si può definire una netta e precisa separazione tra vita individuale e collettiva; il riconoscimento della specificità e l'identificazione in un particolare gruppo sono condizioni irrinunciabili per la stima di sé, la formazione delle proprie preferenze e un'effettiva libertà di scelta. Inoltre la richiesta di piena adesione a ideali e modelli universali maschera in realtà l'imposizione della volontà di uno specifico gruppo dominante.
Un secondo modello, quello pluralista, associato alla Gran Bretagna: il concetto di libertà, a differenza del modello precedente è strettamente associato non all' idea di eguaglianza, ma a quella di autonomia, quindi i gruppi ed i singoli devono avere la libertà di scegliere e decidere in maniera autonoma. Questo modello ammette e legittima l'esistenza di un certo grado di diversità culturale ed identitaria limitata però dal rispetto delle leggi e delle regole stabilite secondo il metodo democratico. Anche il modello pluralista può essere sottoposto ad alcune critiche rilevanti: agli immigrati è concesso di conservare ed esprimere un certo grado di diversità facendo risaltare la convinzione di una radicale ed ineliminabile superiorità nei confronti degli stranieri. Data la radicale differenza l'unico intervento possibile è regolare le relazioni e porre gli immigrati nella condizione di nuocere il meno possibile.
L'ultimo modello caratteristico della Germania, è definito di istituzionalizzazione della precarietà, considera gli immigrati come ospiti temporanei, rimanendo così sempre diversi e difficilmente inseribili nella comunità autoctona e destinato a lasciare il Paese di immigrazione più che ad inserirsi in esso. Lo Stato mira quindi alla tutela della loro diversità tendendo ad integrarlo non nella cultura del Paese ospitante, ma solo nel mondo del lavoro e favorendone il ritorno nel Paese d'origine. La critica fondamentale a questo modello consiste nel discriminare gli immigrati dalla vita sociale, politica e culturale della nazione. Inoltre fa pensare di essere ciechi nei confronti degli effettivi processi sociali e di fronte all' effettivo mutamento della società. Rispetto ai precedenti modelli in cui essere membri della nazione è considerato un fatto di volontà, di accettazione di regole e di stile di vita e di pensiero, nel modello tedesco invece, l'appartenenza alla nazione viene percepita come un fattore innato, legato alla discendenza e alla parentela più che alla condivisione di un progetto comune o al rispetto di regole condivise.
L'immigrazione è iscritta strutturalmente nel nostro futuro: è tempo di farcene una ragione. Ogni decennio l'immigrazione raddoppia. Tenendo conto che molte persone sposate hanno lasciato i figli in patria, che altre devono ancora costituire una famiglia, è facile ipotizzare che la presenza degli immigrati è destinata ad aumentare ulteriormente, soprattutto dopo la possibilità di ricongiungere la famiglia. A metà secolo potranno essere tre, quatto, cinque volte di più: non arriviamo impreparati e impauriti a questo appuntamento. Dobbiamo solamente essere consapevoli che essere Paese di immigrati non significa perdere la propria cultura e questa è la grande sfida dei prossimi decenni. Unendo gli sforzi possiamo far sì che l’Europa si concili con il proprio futuro e che l'immigrazione venga accettata come componente della nostra società.

2.5  MULTICULTURALISMI: HABERMAS VS TAYLOR
La politica contemporanea ha al proprio centro il bisogno e la domanda di riconoscimento, in quanto si presume che la nostra identità sia plasmata dal riconoscimento o dal misconoscimento da parte di altre persone. Taylor definisce l’identità come “la visione che una persona ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano”. Essa è dialogica in quanto è una dimensione interpersonale che viene definita nel confronto con gli altri. Il riconoscimento è l’identificazione di una particolare e diversa identità che viene accettata nella sua specificità e considerata uguale a tutte le altre identità. Sia per Habermas che per Taylor l’essere umano ha bisogno del riconoscimento proveniente dall’esterno per vivere socialmente e per occupare una qualsiasi posizione. Esso non è solo un attestato di reciprocità, ma un riconoscere nell’altro da sé quell’idea di umanità che coinvolge e determina entrambi: l’altro viene riconosciuto nella sua dignità di uomo alla pari. Il misconoscimento può a volte condurre ad una sorta di profezia che si auto avvera: riconoscere un individuo, o un gruppo minoritario, in modo dispregiativo può spingere all’interiorizzazione di tale nuova immagine da parte del soggetto misconosciuto, imprigionandolo, così, in una dimensione distorta che lo condanna inevitabilmente alla crisi e alla emarginazione. Mentre in passato il riconoscimento era scontato, in quanto definito dall’appartenenza alle classi sociali, oggi, con il crollo di quest’ultime, deve essere conquistato e non è detto che ciò avvenga. La politica dell’uguale riconoscimento, affrontata nella trattazione di Taylor, si differenzia in ulteriori due politiche: quella della dignità e quella delle differenze. Mentre la prima riconosce a tutti i cittadini uguali diritti e uguale dignità, la seconda rifiuta l’idea di una grande identità omologante e riconosce alle singole identità la loro autenticità e specificità. La politica delle differenze pone l’accento sull’importanza di formare e definire la propria identità, non solo come individui ma anche come cultura. Nel contesto interculturale la richiesta di riconoscimento è molto più forte in quanto le nuove culture richiedono tutte un uguale rispetto, che se non viene ottenuto in modo autonomo, deve essere concesso tramite trattamenti “privilegiati”. La politica della dignità è cieca alle differenze e, in virtù dell’uguaglianza, rifiuta i trattamenti differenziati che vengono attuati nei confronti di soggetti sociali svantaggiati e delle culture minoritarie. I presunti “valori universali” a cui i liberali si appellano, sono in realtà frutto della cultura occidentale e non valgono quindi per tutte le società.
Secondo Habermas queste due politiche hanno un’origine comune: i diritti individuali nascono infatti insieme a quelli collettivi in quanto sono frutto di un “patto collettivo” tra persone che si impegnano a rispettarsi reciprocamente. Solo attraverso il dibattito pubblico e democratico, gli esclusi da questo patto possono rientrarvi, senza bisogno di diritti specifici e trattamenti differenziati. Il rischio è infatti di cadere nella “discriminazione a rovescio”: gli interventi compensatori diretti agli svantaggiati, spesso acuiscono le differenze fra costoro e coloro che non ne usufruiscono. Non è l’essere donna o l’essere straniero a rappresentare di per sé uno svantaggio, ma sono i singoli casi.
Taylor, prendendo come esempio il caso del Quebec, cerca di capire se la politica dell’uguale dignità può essere conciliata alla politica delle differenze. La società francofona in Canada sentendosi, minacciata dalla maggioranza inglese e non ricevendo un uguale riconoscimento, tenta di tutelarsi e mantenere viva la propria cultura attraverso una legislazione alternativa. Secondo Taylor, però, se si obbliga le famiglie francofone ad iscrivere i loro figli in scuole francesi, si attua di fatto una discriminazione anche nei confronti di questi, in quanto anche volendo non potrebbero iscriversi a scuole inglesi. È giusto permettere la sopravvivenza ad una cultura ed individuare un fine comune, ma è anche necessario tutelare le libertà fondamentali, come la libertà di parola e di religione. Una società con fini colletti forti può essere liberale purché sappia rispettare la diversità, soprattutto quando ha a che fare con persone che non condividono i suoi fini comuni, e sappia salvaguardare in modo adeguato i diritti fondamentali. Taylor non condivide la politica dell’uguale dignità in quanto è “inospitale verso la differenza” ed in quanto il liberalismo che prende ad esempio non è culturalmente neutrale. La soluzione che viene proposta consiste nel riscoprire il valore di ogni cultura e uno strumento a favore di ciò può essere l’intercultura, l’inserimento a scuola di programmi afrocentrici e l’ampliamento del “canone” degli autori più accreditati (formato quasi sempre da “maschi bianchi morti”). Tutto ciò in vista di ciò che Gadamer chiama “fusione degli orizzonti”: dobbiamo imparare a muoverci in un orizzonte più ampio e a considerare i nostri criteri di giudizio non come assoluti ma solo come possibili.
Come per Taylor, anche per Habermas la neutralità dello stato è una caratteristica importante: egli individua una soluzione pacifica al conflitto interculturale nel consenso procedurale, che non richiede l’accordo sostanziale sui valori, tra i membri di un determinato gruppo, ma sulle “procedure relative ad una legittima produzione giuridica, ad un legittimo esercizio del potere”. Taylor considera il sistema dei diritti cieco di fronte alle tutela di forme di vita culturali e identità collettive, per cui, le culture minoritarie, per sopravvivere nel tempo, necessitano di particolari tutele giuridiche.
Ma, considerando il fatto che il diritto è emanazione dell’intera società, e che le norme giuridiche si riferiscono sempre ai nessi d’interazione di società concrete, secondo Habermas le minoranze non possono avere la pretesa di essere tutelate con politiche protezionistiche. Lo stato è etico e non è possibile eliminare la dimensione etica dal dibattito pubblico, in quanto le varie etiche devono poter convivere in uno scenario democratico, senza legislazioni autonome e specifiche. L’identità collettiva è fondamentale e non è però, distinguibile da quella individuale. La richiesta che deve emergere in una società, non è di tutelare la cultura di per sé, come sostiene Taylor, ma di garantire ai suoi membri la libertà di esprimersi. Secondo Habermas non si può tutelare ecologicamente la cultura come avviene con la specie, poiché essa è dinamica, si modifica nel tempo e “sopravvive” fino a quando riesce a motivare i suoi aderenti e a rispondere alle esigenze sociali. Se si garantisse la sopravvivenza di una cultura attraverso il sistema dei diritti, si sottrarrebbe la libertà di scelta agli individui e si renderebbe fissa e artificiale una realtà in continua trasformazione.
La forza dell’“autotrasformazione”  è accentuata dalla modernizzazione, dalla secolarizzazione, oltre che dai flussi migratori (e quindi dalla globalizzazione) e causa  la nascita di movimenti fondamentalistici che reagiscono al tentativo dell’Occidente di porre fine alle culture locali e di imporre i propri valori. Un’alternativa al federalismo si configura essere dunque per Habermas il multiculturalismo: esso ci impone un rifiuto netto della rigidità, del ritiro reazionario verso la propria ed esclusiva tradizione, e ci spinge verso una nuova disponibilità a rivedere i confini della nostra dimensione culturale nell’apertura all’altro. Il contatto tra culture differenti, che si vive nel contesto di flussi migratori, non deve spaventare, né spingere verso una chiusura nazionalistica, ma permettere ed incoraggiare l’arricchimento interculturale.

2.6  SCUOLA E INTERCULTURA
Gli attuali processi di globalizzazione determinano intensi processi migratori dal sud del mondo e dall'Est europeo verso i paesi dell'Occidente "sviluppato". La presenza nel nostro paese di uomini e donne provenienti dai paesi del Sud del mondo e dell'Est europeo sta lentamente modificando aspetti centrali della nostra vita: l'Italia è diventata così una società multietnica. Siamo in presenza di un processo che è un evento né effimero né casuale che costringe la società italiana a ripensare se stessa, la propria tradizione culturale, il proprio status antropologico, il proprio futuro. Questa nuova realtà multietnica e multiculturale pone problemi inediti sia sul versante economico-sociale, sia su quello culturale e formativo. In quest’ultimo versante, ovvero quello culturale e formativo, vengono imposti degli obiettivi di fondo da non sottovalutare.  Innanzitutto  le fondamenta di questo “progetto” devono tener conto di aspetti quali la crescita culturale diffusa, nella vita di tutti i giorni, o meglio nelle concrete interazioni di soggetti attivi, si deve cercare di perseguire un’unità critica e dinamica delle relazioni e degli scambi poiché si presuppone una visione non statica delle culture e in particolar modo si debbono favorire relazioni autentiche e rispettose dell’altro, in un percorso di apprendimento in una dimensione culturale (politically correct). Si tratta così di un’agevolazione delle relazioni dialogiche tra diversità che si riconoscono imperfette e che hanno un forte bisogno di apertura, rispetto e dialogo. Per riuscire a portare a termine tutto ciò serve una buona dose di volontà, senza la quale viene meno il progetto di base: l’integrazione. Alla base di tutto ciò, vi è un argomento di primaria importanza: l’identità culturale. Essa è un processo dinamico, interattivo ed attivo, che muta nel tempo e che si costruisce grazie all’interazione sociale con gli altri e con il mondo esterno. Ognuno ha degli aspetti propri che lo caratterizzano e che al tempo stesso lo differenziano dagli altri; ha una funzione centrale l’individuo in quanto tale e non la sua appartenenza ad una specifica cultura o religione. E’ proprio da quest’ ultimo presupposto che ognuno di noi dovrebbe iniziare il suo percorso di integrazione con il mondo esterno, che, ora più che mai sta assumendo caratteristiche multietniche. Anche la scuola, in quanto cardine fondamentale della società moderna, si sta organizzando al meglio e con tutti i mezzi a sua disposizione, al fine creare una sola società multietnica, lasciando in disparte quella passata dove ogni essere contava solo per la cultura di appartenenza.  Nel corso della storia, siamo venuti a contatto con differenti situazioni sociali per le quali abbiamo dovuto trovare dei metodi grazie ai quali sarebbe stato possibile eliminare pian piano tutte le discrepanze presenti tra le varie etnie.
Come ultima situazione, cioè quella più vicina a noi e che ci riguarda in primis,  possiamo trovare il fenomeno migratorio che si è radicato nella nostra società negli ultimi decenni.  Si è cercato così di organizzare un piano efficiente per rimuovere quegli ostacoli che a noi sembrano muri insormontabili. Tali piani vengono applicati in ogni campo, sia sociale che culturale. Infatti, anche all’interno della sfera scolastica l’integrazione viene vista come un punto d’arrivo fondamentale.
Una disciplina che si occupa di ciò è la pedagogia interculturale. Essa ha come obiettivo quello di impostare il rapporto tra due persone in modo che entrambe possano percepire un miglioramento per se stesse. Con ciò si intende che non debba esistere una relazione impostata sull’autorità e sulla superiorità. Attivando questo meccanismo saremo in grado di risolvere la maggior parte dei problemi che ci si pongono davanti.  Ricapitolando, il tutto parte dall’impostazione di base della relazione tra le persone. L’integrazione è resa difficoltosa non solo dalla diversità, ma anche da problematiche relative alla lingua e alla differente cultura.  Per permettere di conservare la propria cultura d’origine, sono state edificate in molte città italiane, alcune scuole in cui vengono impartiti i valori relativi alla loro cultura natale, e nelle quali è possibile far accedere anche i bambini italiani che sono intenzionati ad arricchire la loro cultura (es: scuola araba di Milano). Nelle scuole comuni invece, non sono ancora state inserite materie specifiche, quale potrebbe essere l’arabo piuttosto che il cinese, bensì è stato adottato un metodo con il quale sia possibile far apprendere le nozioni ai bambini in modo semplificato utilizzando un nuovo metodo di didattica (ripensamento della didattica). Inoltre vengono assunte persone altamente specializzate addette al sostegno degli alunni con difficoltà di apprendimento e comprensione delle nuove discipline scolastiche. Dalla convivenza di due differenti culture sorge quindi un tema fondamentale, quale lo è quello dell’integrazione in particolare dei bambini che sono il nostro futuro. Il problema relativo ad essa interessa sia la cultura autoctona che la cultura straniera. Infatti affinché si verifichi  l’integrazione è necessario che le due culture trovino un punto di incontro rinunciando ad aspetti non determinanti come ad esempio per la questione relativa al velo, gli islamici rinunciano a portare il burka mentre noi ci sforziamo di avere un’apertura mentale nei loro confronti.  Si tratta quindi di un percorso bidirezionale e non unidirezionale, nel quale i vantaggi sono per entrambe le parti interessate.
L’integrazione a scuola non è sempre stata come oggi si presenta, ma ha subito dei cambiamenti, anche radicali, nel corso della sua storia. Infatti è stato possibile tripartire l’evoluzione dell’integrazione in ambito scolastico in tre principali fasi. La prima fase è quella denominata monoculturale, tipica degli anni ’60 che ha la peculiarità di vedere come unica e valida la cultura autoctona, considerando la cultura dello straniero come secondaria e irrilevante, che poteva essere messa in pratica solo nell’ambito privato e non in quello pubblico. La cultura dell’immigrato veniva percepita come un ostacolo all’integrazione e di conseguenza si cercava in tutti i modi possibili di limitare i rapporti tra le due culture, riducendoli al minimo indispensabile. Per far fronte al problema del diverso nasce la pedagogia per stranieri con lo scopo di insegnare la lingua, le regole e i valori su cui si fonda la società per evitare che lo straniero inquini con la sua cultura quella egemone. La scuola nello specifico adottò un tipo di didattica fondato sulla pedagogia compensativa nata appunto con il fine di colmare il divario tra la cultura del Paese ospitante e quella del Paese di provenienza. La seconda fase, è quella chiamata multiculturale e relativistica, in cui l’altra cultura viene riconosciuta nella sua validità e dignità ma, comunque, tra le due culture non vi è contaminazione, in quanto lo straniero viene classificato come diverso: nel senso che allo straniero viene permesso di praticare anche in luoghi pubblici la propria cultura ma non viene percepita la necessità e l’importanza che entrambe le culture si arricchiscano con un rapporto di scambio culturale. Nella scuola, che rappresenta il riflesso della società, si nota con maggiore enfasi,  l’assenza dello scambio tra le culture, dove infatti vengono adottati due percorsi paralleli di apprendimento fondati sui principi fondamentali di ciascuna cultura. Terza e ultima fase, nonché la più favorevole e feconda per l’integrazione odierna, è quella denominata dell’intercultura. Questo modello nasce in risposta all’inadeguatezza dei due modelli precedenti che non sono stati in grado di risolvere i problemi, anzi, hanno favorito l’insorgere di difficoltà verso l’altra cultura, come ad esempio l’ inizio della diffusione di pregiudizi e stereotipi che al giorno d’oggi sono ampiamente diffusi e che sono difficilmente sradicabili dalla mentalità popolare.  Il suo compito principale è quello di affrontare le problematiche legate alla società moderna, tenendo presente che l’immigrazione non è soltanto la fuga da una realtà, che l’immigrato ritiene molesta, ma è anche frutto di economia per il nostro Paese (presenza di stranieri in settori strategici) e favorisce così la globalizzazione delle culture. La comunicazione tra le culture quindi è necessaria, in quanto fornisce ad entrambe le parti competenze interculturali che sono utili per vivere in un mondo sempre più globalizzato e unito. Anche senza la presenza di immigrati c’è bisogno di attuare il processo interculturale, come base di formazione degli individui nella dimensione multiculturale e internazionale della società moderna.

2.7  LE SITUAZIONI PONTE E LA FAMIGLIA IMMIGRATA
Il fenomeno dell'immigrazione nel nostro Paese ha coinvolto un numero sempre più alto di persone, divenendo complesso e diversificato. Con il termine immigrazione si intende l'ingresso in un Paese in maniera permanente o semipermanente di gruppi di persone provenienti da un altro Stato. In Italia i flussi migratori iniziano durante la fine degli anni Settanta per poi intensificarsi nel corso del decennio successivo divenendo delle vere e proprie ondate migratorie durante gli anni Novanta. La prima provenienza si conferma quella marocchina, ma percentualmente crescono di più le provenienze dall'Est Europa (Albania, Jugoslavia e Romania), dalla Cina e dalla Nigeria. Alla base della mobilità della popolazione esistono nelle società di arrivo dei potenti fattori attrattivi che inducono alla immigrazione verso un determinato Paese e sono collegati nella società di partenza ad altrettanto potenti fattori espulsivi che inducono ad emigrare dal Paese d’origine. Tali fattori sono di tipo economico o dovuti a persecuzioni o oppressioni (per sfuggire a guerre, genocidi e dittature). Dunque possiamo distinguere due tipi di migrazione: spontanea nel primo caso e forzata nel secondo. Il Paese di accoglienza in caso di migrazione spontanea, si riserva il diritto di accogliere o respingere gli immigrati a seconda di convenienze politiche ed economiche; in caso di migrazione forzata questi ultimi ottengono automaticamente diritto d’asilo. Tuttavia bisogna precisare che coloro che emigrano non sono in una condizione di estrema precarietà e povertà, ma comunque hanno una buona disponibilità economica che gli permette di far fronte alle spese del viaggio ed alle prime esigenze nel paese d’arrivo. Inoltre la scelta del migrante spontaneo per quanto libera ed entusiasta, incorpora la certezza di una perdita sottoforma di distacco dalle persone amate. Ne consegue una perdita dell’identità individuale per coloro che partono e per coloro che restano, con i relativi cambiamenti culturali e religiosi.
Dal punto di vista psicologico l’identità si riferisce alla percezione che ogni individuo ha di sè stesso, cioè della propria coscienza di esistere come persona in relazione con altri individui, con i quali forma un gruppo sociale. Dal punto di vista sociologico si designa il termine “identità culturale” sulla base di cultura, indicante le norme di condotta, i valori, gli usi ed il linguaggio che uniscono o diversificano i gruppi umani. Secondo Virginia Rodriguez: “la cultura ha due caratteristiche principali che consentono la sua lettura: la prima è la dinamicità, legata ai mutamenti che gli uomini subiscono e mettono in atto, la seconda è la processualità con la quale si evidenziano le complesse e dinamiche relazioni che si instaurano tra gli uomini e che danno luogo a Processi Culturali che vengono agiti dalle persone in virtù del legame esistente tra persone e cultura”. Partendo dal fatto che la cultura è legata a queste due caratteristiche, è presupponibile la perdita dell’identità culturale in seguito ad una netta separazione e differenza tra cultura d’origine e cultura del Paese di accoglienza, inducendo l’immigrato ad una modificazione del suo stile di vita; se ciò non avvenisse, all’immigrato non si presenterebbero possibilità di integrazione. Una delle maggiori sfide che si prospettano al nostro Paese consiste in una migliore integrazione tesa a promuovere la comprensione reciproca tra popolazione autoctona e popolazione straniera, presupponendo sia la disponibilità delle persone straniere ad integrarsi, sia un atteggiamento d'apertura da parte della popolazione tendendo così a garantire le medesime opportunità. La mediazione culturale è da considerare un vero e proprio ponte tra le due parti e serve ad agevolare il processo di integrazione e di mutamento della società che accoglie gli immigrati in un comune impegno di reciproco adattamento. I mediatori culturali sono figure ponte che si inseriscono nei servizi pubblici e nelle strutture private intervenendo per favorire il raccordo fra soggetti di culture diverse contribuendo a rimuovere gli ostacoli che impediscono o intralciano la comunicazione. Quindi il mediatore opera nel punto di incontro delle due culture, sia a livello sociale, sia a livello amministrativo instaurando una fitta rete di relazioni e contatti con i vari enti presenti sul territorio.
Anche all’interno del nucleo famigliare sono presenti delle figure che contribuiscono alla mediazione tra le due culture: la donna ed i figli. I loro ruoli vengono modificati con l’inserimento nella nuova società, comportando la modificazione della struttura famigliare tanto che non si parla di un modello uniforme per famiglie immigrate, ma di nuove tipologie di famiglie che si creano dalla sovrapposizione di modelli tradizionali (regole della società di origine) e modelli moderni. La donna oltre ad essere la responsabile dell’educazione dei figli diventa capofamiglia, ruolo difficilmente accettato dalla comunità di appartenenza in quanto lontana dalla figura della donna emancipata, inoltre regola il processo di integrazione all’interno delle comunità immigrate diventando così ponte tra la cultura d’origine, impedendone la perdita dei valori e delle tradizioni, e quella d’arrivo dove la religione, le tradizioni e i comportamenti tipici possono essere mantenuti solo in ambito privato. La figura della donna è però limitata dalla dipendenza dal marito che inseritosi nel nuovo contesto attraverso il lavoro, svolge il ruolo di mediatore linguistico e culturale. I figli fungono da anello di congiunzione tra i modelli tradizionali della famiglia di appartenenza e quelli richiesti dalla nuova società; questo però comporta tensioni con i genitori proprio perchè avviene una rottura tra i valori tradizionali della famiglia immigrata e quelli della società ospitante che vengono trasmessi principalmente attraverso la scuola. Un esempio che spiega meglio la mediazione tra genitori ancora radicalizzati nella cultura d’origine e figli che invece assumono atteggiamenti ed usanze di gruppi di pari del Paese ospitante ci viene dato da un’antropologa francese sulla festa del montone fra i musulmani di Francia: “La storia narra che in una famiglia di marocchini si sta per celebrare il rito sacrificale, nonostante i divieti municipali proibiscano di farlo a casa per ragioni igienico-sanitarie. Successivamente arriva uno dei figli, brillante studente di veterinaria, nato in Francia, il quale, alla vista del padre armato di lama sottile per sgozzare l'animale, reagisca irritato dicendo: <>". Dalla prima alla seconda generazione riscontriamo notevoli differenze, tanto che il giovane è in grado di non rinunciare alla propria identità, mettendo però in discussione alcune pratiche religiose che gli appaiono superate e non concordanti con i nuovi valori acquisiti. La paura di perdere il proprio patrimonio culturale e religioso non dipende dall'immigrazione bensì dal fatto di averlo interiorizzato in maniera superficiale. Un contesto certo di diritti e di doveri garantisce noi e non penalizza i nuovi venuti. Accettiamo tutto quello che è compatibile con la Costituzione, ma abbandoniamo il pregiudizio che gli immigrati siano una massa di delinquenti, altrimenti poniamo gravi ostacoli alla convivenza.
Abbiamo perciò visto che una delle situazioni ponte fra l’immigrato e la realtà autoctona è proprio il contesto famigliare, ma dobbiamo distinguere realtà e tipologie differenti di famiglie straniere presenti nel nostro Paese. Dai dati che ci provengono dal 2002, si evince che nel nostro Paese il 51,8% degli stranieri regolari sono coniugati. Sempre nel 2002, cita il rapporto Caritas- migrantes, il ricongiungimento famigliare raggiunge, con il 47,9% quasi la metà dei visti concessi per motivi di insediamento, a riprova del fatto che ci si trova davanti ad un’immigrazione sempre più volta alla stabilità. Il ricongiungimento famigliare però è un fatto che può presentare svantaggi e/o vantaggi. Nel primo caso bisogna tener conto del fatto che il ricongiungimento è talvolta causa di precarietà nel mondo del lavoro, di disoccupazione e di incremento dei problemi di integrazione all’interno della scuola. I vantaggi, invece, riguardano soprattutto il fatto che il ricongiungimento famigliare favorisce la costruzione di una rete socio-culturale tale da permettere un minor numero di crimini da parte di immigrati e una loro maggior motivazione e spinta all’integrazione. Il solo fatto di avere una famiglia vicina motiva fortemente l’individuo, stimolandolo a integrarsi e a sentirsi maggiormente membro della comunità; in poche parole la famiglia offre stabilità, favorisce il nascere di un progetto di vita e tiene lontano l’individuo immigrato dalla malavita. Come abbiamo già vi sono diverse tipologie di famiglie immigrate ed è proprio tale diversità di modelli famigliari in una convivenza inter-etnica ad incidere fortemente sulle famiglie immigrate stesse. Proprio per questo è giusto dire che le famiglie immigrate  non sono omogenee tra loro e sono portatrici di esperienze culturali dissimili. Nelle famiglie immigrate i soggetti affrontano i traumi e i problemi provocati dal quotidiano vivere nella società, e proprio i membri riversano le problematiche legate all’emigrazione e all’integrazione nella nuova società. Questo fatto fa sì che  la famiglia immigrata sia molto fragile e debole. Bisogna aggiungere anche il fatto che l’emigrazione da un Paese non è mai un’esperienza gratificante e facile da affrontare, sia dal punto di vista materiale che morale. In questo caso l’ individuo si trova di fronte a modelli culturali del tutto diversi dal proprio e questo fatto comporta confusione e ancor più fragilità: ciò vuol dire mutare il proprio patrimonio culturale e vedere affrontare nuove dinamiche socio-culturali che possono anche portare ad episodi conflittuali legati spesso alla revisione dei ruoli, in quanto proprio i ruoli, nella famiglia immigrata assumono cambiamenti radicali.

2.8  IL LAVORO

 

Le professioni più richieste

Il lavoro immigrato è “complementare” rispetto a quello offerto agli italiani: le quote più elevate di richieste interessano, infatti, profili tecnici ed esecutivi. In aumento appare la domanda di professioni relative alle vendite e ai servizi alle famiglie: 43mila assunzioni previste nel 2005, 10mila in più rispetto al 2004, destinate in particolare a camerieri, baristi e operatori di mensa; commessi e addetti alle vendite; assistenti socio-sanitari presso istituzioni. Agli operai specializzati (in testa quelli del settore edite) solo nel 2005 sono destinate 41mila assunzioni (12mila in meno dello scorso anno), mentre altre 27mila riguardano i conduttori di impianti, con i conducenti di autocarri e camion che raccolgono le richieste maggiori. In diminuzione la richiesta di personale non qualificato: le 56mila assunzioni previste nel 2004 divengono 47mila nel 2005. Il cammino dell’integrazione, però, procede. Un dato sembra confortare questa ipotesi. Per la prima volta, alcune professioni ad elevata specializzazione si aprono al lavoro immigrato: è il caso dei 910 programmatori informatici ricercati tra immigrati extracomunitari. Inoltre, si mantiene pressoché stabile, rispetto all’anno scorso, la richiesta – piuttosto sostenuta vista la difficoltà di reperimento - di infermieri professionali (2.700) e di tecnici dell’amministrazione e della contabilità (1.800). Il dato totale di lavoratori stranieri in Italia è di 2092 nel solo quarto trimestre del 2006, di cui 113 con laurea post diploma, 441 con diploma, 332 con la licenza media e 134 con la licenza elementare.                                        

 L’opinione
“Gli immigrati si confermano anche quest’anno una risorsa importante per l’economia di molte regioni e province italiane”, ha commentato il presidente di Unioncamere, Carlo Sangalli. “E’ evidente che essi stanno occupando degli spazi del mercato del lavoro che gli italiani tendono ad abbandonare, perché considerati poco adeguati alle proprie aspettative. Vediamo però che qualcosa sta cambiando, per effetto, credo, di due differenti fattori: da una parte la difficoltà di reperire alcuni profili professionali qualificati tra i giovani italiani in uscita dalle scuole e dalle Università; dall’altra la globalizzazione, che stimola lo ‘scambio’ dei cervelli e delle competenze. Ritengo questo sia un fatto positivo in un’ottica di piena integrazione sociale”.
La bussola del lavoro immigrato 
A richiedere lavoratori extracomunitari sono soprattutto le imprese del Nord (108mila le assunzioni previste in quest’area), ma la domanda delle aziende delle regioni centrali appare in crescita (38mila i lavoratori immigrati richiesti). Milano e Roma, seguite da Torino e Napoli, si confermano capitali multietniche: in queste città, infatti, quasi 30mila posti di lavoro sono destinati a immigrati. Due province del Nord-Est (Udine e Parma), seguite da Vercelli e Trieste, guidano invece la classifica nazionale per numero di immigrati richiesti sul totale delle assunzioni previste dalle imprese locali. La maggior parte delle imprese italiane (57,6%) e europee (60,4%) annovera al proprio interno lavoratori stranieri, ma i motivi della scelta divergono. Dal punto di vista della logica imprenditoriale nelle attività nostrane due sono i fattori motivanti la scelta di un lavoratore straniero: perché accetta lavori che gli italiani non vogliono più fare (24%) e perché garantisce disponibilità (13,5%). Ma rilevante è anche la quota degli imprenditori che assumono stranieri perché credono fermamente nella società multietnica: il dato si attesta al 11,1%. Sul fronte europeo è invece fondamentale (nel 18,5% dei casi contro il 2,4% in Italia) l’apporto di nuovi input culturali nell’azienda che un lavoratore straniero garantisce, così come l’importanza assegnata alla società multietnica (13,6%). La disponibilità scende invece rispetto al dato italiano al 9,9%.Sensibile anche la quota relativa al minor costo, 4,9% a fronte del 1,1% italiano. Ad assumere soprattutto le imprese di minori dimensioni: 61mila immigrati sono ricercati dalle aziende con meno di 10 dipendenti mentre altri 27mila potrebbero entrare nelle imprese di 10-49 dipendenti. Sensibile l’apporto delle grandi imprese: 54.730 gli immigrati richiesti dalle aziende con oltre 250 dipendenti.

Il fenomeno: le badanti
Sono quasi un milione e mezzo le badanti presenti nel nostro paese e la metà non ha contratto o non è in regola con i contributi versati all’Inps. Quello delle badanti è un mercato “utile” del lavoro visto che lo Stato risparmia sei miliardi di euro. Attraverso questo sistema per una paga mensile attorno agli 800 euro, nel 70 per cento dei casi vivono 24 ore al giorno accanto alle persone che assistono, anziani non autosufficienti nel 75 per cento dei casi, mischiando mansioni domestiche e para infermieristiche, spesso senza avere alcuna preparazione professionale in materia. "Il fenomeno delle badanti è la risposta spontanea a un'insufficienza del settore pubblico nell'assistenza agli anziani. Un sistema di convenienze nascoste che salda le esigenze delle famiglie con quelle delle straniere in cerca di soldi per mantenere se stesse e i parenti rimasti in patria", spiega Pierangelo Spano, docente della Bocconi, secondo il quale il 58 per cento delle badanti viene contattata attraverso un network di conoscenti o parenti. Un dato, quest'ultimo, che fa riflettere Cristina Mazzacurati, docente al master di studi Interculturali dell'università di Padova: "Meglio parlare di caporalato, più che di vera e propria tratta. Le badanti non vengono private completamente della libertà, come nel caso delle prostitute. Però devono pagare una tangente a connazionali residenti da tempo in Italia che introducono le nuove arrivate sul mercato". Il meccanismo funziona, e bene. Dall'Ucraina sono arrivate 120mila persone, donne all'85 per cento, la quarta comunità in Italia, con un balzo del 750 per cento in quattro anni. Per le moldave l'aumento è del 450 per cento e il 70 per cento del Pil del loro paese è costituito dalle rimesse. Un sistema che conviene anche oltre confine.

2.9  LE LEGGI SULL’IMMIGRAZIONE IN ITALIA
L’Italia è un paese dall’elevata percentuale di immigrazione ed emigrazione. Gli interventi dello stato per affrontare questo fenomeno si dividono in due parti: quelli rivolti ai lavoratori italiani all’estero e quelli in favore dei cittadini stranieri presenti sul territorio italiano per motivi di lavoro. A partire dal 1986 si è sentita l’esigenza di ravvisare ai lavoratori extracomunitari la parità di trattamento e gli stessi diritti riconosciuti ai lavoratori italiani; tale legge consentiva l’accesso nel territorio italiano ai soli lavoratori muniti di visto d’ingresso (l. 30 dicembre 1986, n. 943). Nel 1990, con la legge Martelli, l’ingresso e il soggiorno di stranieri è stato esteso anche al lavoro autonomo e alle libere professioni; inizialmente però senza tener conto delle condizioni d’ingresso e successivamente sono state applicate restrizioni, quali respingimento alla frontiera, rifiuto e revoca del permesso di soggiorno. Per la prima volta, nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, sono stati stabiliti i diritti e i doveri degli stranieri considerando l’immigrazione come un fenomeno straordinario e non come un evento eccezionale. Il decreto legislativo del 25 luglio 1998 n. 286 disciplina inoltre la procedura per l’accesso al lavoro dei cittadini extracomunitari e degli apolidi. Relativamente all’alloggio e all’assistenza sociale sono previste norme riguardanti l’operatività di centri di accoglienza, l’uguaglianza  di stranieri aventi carta o permesso di soggiorno (di durata non inferiore ad un anno) a cittadini italiani nella fruizione delle prestazioni, l’appoggio di attività intraprese in favore degli stranieri regolarizzati; esiste poi un fondo presso la Presidenza del consiglio per le politiche migratorie con funzione di adottare misure di accoglienza, di provvedere all’istruzione e di fornire informazioni riguardanti l’inserimento sociale. Un’ulteriore misura di protezione è stata introdotta nel 1998, rivolta agli stranieri che subiscono violenze o sfruttamenti, ai quali è concesso uno speciale permesso di soggiorno che consente loro di potersi integrare socialmente sottraendosi alla situazione di malessere iniziale. La legge Bossi-Fini dell’anno 2002, accorda il permesso di soggiorno solo agli stranieri con contratto di soggiorno per lavoro subordinato. Tale  contratto deve contenere la garanzia della disponibilità di alloggio per il lavoratore da parte del datore di lavoro e l’impegno al pagamento delle spese di viaggio per il rientro dello stesso nel paese di provenienza. Con la suddetta legge è però obbligatorio che lo straniero rilasci le proprie impronte digitali; inoltre il datore di lavoro che assume extracomunitari non in regola è passibile di arresto e sanzione civile e lo straniero che prima della scadenza del permesso di soggiorno perde il lavoro, è obbligato a ritornare in patria e in caso contrario diventerebbe irregolare e soggetto a espulsione amministrativa. Allo straniero espulso è vietato rientrare in Italia per un periodo di 10 anni dalla data del provvedimento. In relazione ai clandestini invece, è prevista l’accoglienza in centri di permanenza per 60 giorni per l’accertamento dell’identità e il successivo rimpatrio; se ciò si rivela impossibile lo straniero è costretto a lasciare il paese entro tre giorni. Infine l’ingresso in Italia è consentito ai genitori di lavoratori extracomunitari purché abbiano compiuto i 65 anni e non abbiano nessun altro figlio che badi al loro sostentamento.

CAPITOLO 3
LA RAPPRESENTAZIONE DEL DIVERSO
Ø 3.1  MASS-MEDIA E IMMIGRAZIONE                                                                  
- Introduzione                                                                                   
- Mass-media e immigrazione                                                          
- L’immigrazione vista dai giornali                                                 
- L’immigrazione vista dalla televisione                                          
- Stile di trattazione e uso del lessico nei media                              
- Induzione semantica                                                                               
- Conclusioni  
                                                                                  
Ø 3.2  PREGIUDIZIO E DISCRIMINAZIONE                                             
- Introduzione                                                                                    
- Il pregiudizio                                                                                   
- La “razza” umana: il punto di vista biologico                              
- La discriminazione   
                                                                     
Ø 3.3  LA DEVIANZA                                                                                                         
- Introduzione                                                                                    
- Orientamenti teorici                                                                        
- La Scuola di Chicago                                                         
- Teoria dell’Anomia                                                            
- Teoria dell’Etichettamento                                                
- Varie teorie sulla devianza degli immigrati                               
- Teoria del Conflitto di Culture                                         
- Teoria del Controllo Sociale                                              
- Teoria della Tensione e della Privazione Relativa           
- Teoria dell’Etichettamento              
                                
Ø 3.4  LA DIVERSITA’ NELLA FILOSOFIA                                                     
- Diversità e uguaglianza                                                                  
- La tolleranza  
                                                                             
3.1  MASS MEDIA E IMMIGRAZIONE
Introduzione
I mezzi di comunicazione di massa hanno progressivamente acquisito un ruolo centrale nelle società a sviluppo avanzato. I mass media selezionano gli accadimenti quotidiani per decidere quali di essi presentano le caratteristiche necessarie per diventare notizie: filtrano la realtà e strutturano in prodotti informativi determinati avvenimenti, interpretano i problemi ed attribuiscono rilevanza ad alcuni aspetti della vita pubblica piuttosto che ad altri. I mezzi di comunicazione di massa “agiscono nella società, descrivono, interpretano, propongono, orientano il pubblico”
Infatti, l’ipotesi dell’agenda–setting sostiene che «in conseguenza dell’azione dei giornali, della televisione e degli altri mezzi d’informazione, il pubblico è consapevole o ignora, dà attenzione oppure trascura, enfatizza o neglige, elementi specifici degli scenari pubblici. La gente tende ad includere o escludere dalle proprie conoscenze ciò che i media includono o escludono dal proprio contenuto» In parole povere, l’idea che la gente si fa della realtà esterna è in gran parte mutuata dai media che, pur non dicendo alle persone che cosa devono pensare, offrono una lista di temi attorno ai quali pensare qualcosa.
Il processo di selezione operato dai mass media comporta dunque l’offerta ai destinatari non di una fotografia del reale, ma di una sua prima interpretazione.

Mass-media e immigrazione
È d’enorme importanza affrontare il rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e immigrazione, poiché un suo cattivo funzionamento è potenzialmente in grado di scatenare tensioni sociali distruttive.
La maggior parte delle ricerche svolte sul rapporto fra mezzi di comunicazione di massa e immigrazione in Italia è di natura sociologica, mira cioè ad analizzare l’immagine degli immigrati costruita dai giornali per verificare se essa possa contribuire alla creazione di pregiudizi nei confronti degli stranieri e ad alimentare fenomeni d’emarginazione e razzismo.

L’immigrazione vista dai giornali
Per avere un’idea sommaria di come l’immigrazione è presentata dai giornali possiamo far riferimento ai risultati di un’indagine condotta dal CENSIS nel corso del 2002 su quest’argomento[1]: le notizie sull’immigrazione e gli immigrati si collocano più spesso nella stampa locale e tutti i quotidiani si concentrano prevalentemente sulla cronaca (circa il 70% delle notizie pubblicate in proposito).
Sempre secondo il Censis, gli stranieri sono raccontati soprattutto in relazione al mondo criminale, alle forze dell’ordine e al mondo della giustizia; Il cittadino immigrato trova spazio essenzialmente nella cronaca,e se si considera che ben il 40%degli articoli è di tipo breve, è facile intuire come la rappresentazione del mondo dell’ immigrazione sia relegata a sezioni che lasciano poco spazio alla riflessione e all’ approfondimenti .La stampa locale sembra occuparsi dei cittadini immigrati solo in quanto problema o forma di disagio per le comunità autoctone. Gli articoli, spesso sotto forma di brevi notizie a margine di pagina, forniscono un’immagine stereotipata e criminalizzante del cittadino. L'essere "straniero"è ormai diventato un criterio di notiziabilità: il diverso, l'immigrato, il differente aggiunge valore ad una notizia. Si può rilevare quindi come il peso delle notizie cambi con il cambiare della nazionalità dei protagonisti: se nella notizia è specificato che chi ha commesso l’atto di cronaca è uno straniero allora essa occuperà maggiore spazio. Altro aspetto molto importante che è stato rilevato da questa ricerca, è che  quasi mai i giornali “fanno parlare” i diretti interessati, non rispettando in questo modo il pluralismo dell’ informazione. Vengono intervistati solo quando sono protagonisti di storie strappalacrime o di eventi curiosi che colpiscono la fantasia. Nonostante l’Italia sia una società multiculturale, scarsi sono i tentativi da parte dell’ informazione nel rappresentarla come tale. Spesso viene ignorata l’identità culturale dell’immigrato e manca la consapevolezza che la conoscenza a proposito è fondamentale. Raramente è nell’interesse dei giornalisti farci conoscere la loro cultura, le loro idee e le loro opinioni. Al contrario l’immagine che ci danno dell’immigrato è un’immagine fissa e stereotipata. Vengono criminalizzati o rappresentati nei loro aspetti deteriori: sporchi, mal vestiti, stipati a decine in angusti appartamenti dei quartieri-ghetto, manovalanza della criminalità, quasi mai considerati come “persone” né come “cittadini”.
 Oltre alla ricerca del CENSIS, ve ne sono state molte altre che hanno riportato importanti osservazioni e conclusioni. Per esempio Vittorio Cotesta nel suo saggio Comunicazione e immigrazione in Italia analizzò titolo, sottotitolo e occhiello degli articoli di cronaca cittadina pubblicati in alcuni quotidiani italiani, ritenendo che essi fossero i luoghi di massima evidenza del linguaggio giornalistico e in molti casi l’unica parte del giornale effettivamente letta dal pubblico.
 I risultati di Cotesta indicano che i giornali si avvalgono spesso di un linguaggio metaforico e iperbolico, ricorrono frequentemente allo stereotipo per restituire dell’immigrazione e degli immigrati un’immagine pesantemente negativa. Nelle immagini rilevate dallo studioso gli immigrati sono una pericolosa minaccia, sono tanti e abitano luoghi sovraffollati e sporchi, si dedicano alla prostituzione e allo spaccio. 
 La scarsa e scorretta contestualizzazione del fenomeno migratorio e l’insufficiente approfondimento delle cause reali che portano un numero così elevato di persone ad abbandonare il proprio paese alla volta dell’Italia, non promuovono un’adeguata comprensione del fenomeno. La schematicità, lo sconfinamento frequente dei temi dell’immigrazione nell’ambito della cronaca (per lo più nera) rischia di perpetrare un senso di sfiducia e una scarsa speranza d’inclusione sociale negli immigrati e di mantenere vivi atteggiamenti di diffidenza da parte degli italiani rispetto agli immigrati.

L’immigrazione vista dalla televisione
Mentre nella carta stampata la società multiculturale è vista come un dato di fatto, nella televisione è presentata come un problema.
In Italia è lecito sostenere che il “difetto” di comunicazione sugli immigrati s’inscrive in un quadro complessivo d’inadeguata rappresentazione dei diversi soggetti sociali. Si pensi a questo proposito alla strumentalizzazione dell’immagine infantile e alla parzialità della rappresentazione delle donne nei media che il Censis ha rilevato in numerose ricerche. La tesi del Censis rimanda ad una valutazione fortemente critica degli stili e dei modi di comunicazione massmediale nel nostro Paese ed evidenzia la sostanziale “incapacità” del sistema comunicativo (nelle diverse declinazioni: informazione, fiction, ecc.) a dar conto della complessità e soprattutto delle diverse realtà e dei diversi soggetti del corpo sociale. Vediamo ora in cosa consiste tale “difetto” comunicativo riguardante gli immigrati, emerso da questa ricerca. In primo la televisione ci mostra una visione distorta dell’immigrazione per quanto riguarda il sesso e l’età. Infatti, gli anziani sono sottorappresentati (0,2% in tv contro il 6,5% in realtà) cosi come gli immigrati d’età tra i 19 e 65 anni (56,3% in tv contro l’88,2% in realtà) e le donne (18,2% in tv contro il 48’8% in realtà), mentre i minori sono sovrarappresentati (43,5% in tv contro il 5,3% in realtà).
In secondo luogo la “copertura televisiva” degli immigrati è costituita sopratutto, per non dire quasi esclusivamente, da telegiornali, che coprono addirittura il 95,4% del totale.
Le persone di origine straniera nel complesso entrano nel mondo dell’informazione quasi solo attraverso le strette – e tristi – maglie della cronaca.
Quindi, l’argomento trattato di gran lunga in prevalenza è “criminalità/illegalità” (56,7%), seguito da lontano dalla voce “assistenza/solidarietà” (13,4%) e da “immigrazione” (8,0%). Gli altri argomenti, come “lavoro” e “sport e spettacoli” compaiono in misura marginale. Il “ruolo” dell’immigrato rispetto alla vicenda narrata di cui è protagonista è sempre un ruolo negativo (complessivamente nell’83,2%), che egli sia vittima (39,6%) o attore (38,3%).
L’immagine che si desume da quanto visto in televisione, quindi, oscilla dal “povero immigrato”, vittima di una gamma di possibili fatti negativi come atti criminosi, discriminazione, errori giudiziari, ritardi o malfunzionamenti burocratici, ecc… allo straniero violento o addirittura criminale. Gli immigrati vengono usati come soggetti che “funzionano” come espedienti narrativi per drammatizzare la notizia.
Inoltre ci si trova di fronte ad un fenomeno di “personalizzazione senza persona”, come testimonia in modo piuttosto lampante un altro dato: ben nel 68,2% dei casi si designa l’immigrato innanzi tutto attraverso la descrizione delle caratteristiche etniche o il riferimento al Paese di provenienza, riconducendolo cioè ad una categoria, la nazionalità, in cui l’individualità tende a perdersi e il soggetto sembra considerato più come rappresentante di una categoria che come una persona.
Una cospicua presenza immigrata si può ritrovare, oltre che nei telegiornali, nelle fiction e nelle pubblicità. Nelle prime gli immigrati vengono rappresentati nelle vesti di personaggi un po’ ingenui, per lo più riconducibili a ruoli stereotipati, ed è molto raro che compaiano come personaggi tra gli altri. Nelle seconde, invece, gli immigrati compaiono in quanto possiedono determinate caratteristiche come: sensualità, bellezza, gioia di vivere, forza, vigore, fisicità.
L’immagine distorta data dalla televisione è pericolosa non solo per gli italiani, in quanto crea in loro stereotipi e pregiudizi negativi, ma rischia di essere ancora più pericolosa per i bambini immigrati. Infatti in un’ottica di integrazione, il bambino immigrato deve poter pensare di vivere in un Paese che gli offre diverse opportunità esistenziali e non sentirsi “condannato” ad una vita stentata o pericolosa o marginale; percependo negativamente l’appartenenza alla propria categoria sociale, il bambino straniero cerca a tutti i costi di assomigliare agli italiani, di integrarsi nella loro cultura.

Stile di trattazione e uso del lessico nei media
 Il progetto Tuning into Diversity nell’aprile 2002 ha condotto una ricerca in cui ha cercato di valutare lo stile di trattazione delle notizie dei telegiornali e dei giornali nelle quali veniva trattato il tema dell’immigrazione e ha cercato di evidenziare il registro narrativo prevalente, valutando se ci fosse un esplicito ricorso a stereotipi e se venisse fatto uso di toni sensazionalistici al di là del “normale” sensazionalismo che caratterizza lo stile televisivo in sé, indipendentemente dall’oggetto.
Dalla ricerca è emerso che nelle notizie prevale senz’altro la modalità descrittiva, a conferma della scarsezza di approfondimento e in linea con quanto emerso a proposito della nettissima prevalenza di cronaca, che di per sé richiede questo genere di trattazione.
La rappresentazione degli immigrati è di fatto stereotipata: lo straniero viene fuori come “il poveretto” il “delinquente”; in ogni caso le notizie sono trattate in modo tale da coinvolgere, “colpire al cuore” ovvero alla sfera emozionale, più che dare informazioni circostanziate e quanto più possibile scevre da eccessi emotivi. Avere compassione degli immigrati, di una categoria così ampia di persone, però non è sempre da vedersi come un aspetto corretto, poiché nel momento in cui proviamo compassione stiamo presupponendo che essi sono tutti dei poveracci, degli straccioni che vivono in una condizione di svantaggio.
D’altra parte emerge una sensibile attenzione a non cadere in atteggiamenti esplicitamente razzisti o discriminatori, per esempio attraverso il ricorso a stereotipi o ad un sensazionalismo “schierato”.
Tuttavia tale attenzione è di fatto contrastata da tendenze stilistiche solo apparentemente neutre ma che in realtà possono rivelarsi, variabili fortemente “attive”, come il fatto di alludere alla nazionalità o alla provenienza della persona immigrata come unico elemento di identificazione (“albanese uccide…” è un esempio tipico); casi simili sono una minoranza (26,9% contro il 73,1% in cui vi si allude come ad una caratteristica tra le altre), ma il dato assume rilievo se si considerano le conseguenze di questo modo di presentare le persone in termini di produzione di stereotipi, facili associazioni e generalizzazioni.
Fra queste tendenze stilistiche poco obbiettive, occupa un posto di notevole importanza l’uso improprio che i giornalisti fanno dei diversi termini, quali clandestino, extracomunitario, irregolare, illegale, sostitutivi del termine immigrato.
Il termine immigrato è prediletto dai giornali rispetto alle sue possibili varianti, immigrante e migrante.
Immigrato è una parola antica e ricorre anche nell’uso, mentre immigrante non è un termine diffuso nel parlato, ma spesso viene preferito da alcuni studiosi, poiché evita di connotare come perenne una condizione che dovrebbe essere transitoria, preludendo all’integrazione nella società di arrivo. Immigrante inoltre viene preferito perché sembra indicare meglio il passaggio, uno status provvisorio che dovrebbe essere superato con la piena acquisizione dei diritti civili e di partecipazione politica e sociale. Ciò nonostante i media preferiscono largamente la forma più comune e più diffusa di immigrato.
Il termine clandestino è una facile etichetta usata spesso impropriamente dai media e che crea una barriera di pregiudizio che rende impossibile un incontro onesto, critico, costruttivo con la realtà degli immigrati.
 La ragione di questa predilezione è piuttosto semplice: il problema politico è quello dell’immigrazione clandestina (vale a dire dell’ingresso illegale nel territorio dello Stato) ed è alla sua risoluzione che mirano le azioni delle forze di governo. Nelle pagine di politica interna trova dunque poco spazio il tema dell’immigrazione legale, perché i politici non se ne occupano e i giornalisti, di conseguenza, nemmeno. Al contrario nel linguaggio giuridico l’aggettivo clandestino e il suo sinonimo illegale non sono mai usati per riferirsi a cittadini stranieri, non qualificano in pratica le persone ma le modalità del loro ingresso, effettuato violando la legge. Questo uso aggettivale, non riferito a persone, costituisce un atteggiamento d’obiettività e rispettosità.
Il termine extracomunitario si usa specialmente per riferirsi agli immigrati in cerca d’occupazione provenienti da Paesi economicamente arretrati. E’ con questo significato improprio che il termine viene utilizzato, più spesso come sostantivo che come aggettivo.
Se venisse usato in senso proprio, extracomunitario servirebbe ad indicare tutti i cittadini provenienti da paesi esclusi dall’Unione Europea, anche quelli che in ogni caso fanno parte del cosiddetto Occidente capitalistico.
A rigore, in senso proprio, anche gli Svizzeri, gli Australiani e gli Statunitensi sono extracomunitari, ma quando il termine compare sulle pagine dei quotidiani, a prevalere è il senso improprio registrato da DISC e ZING.
In linea generale, immigrato ricorre ovunque, mentre i quotidiani legano la scelta della parola sostituta al contesto in cui è inserita: in particolare clandestino ricorre quando si illustrano le misure adottate per impedire gli ingressi illegali in territorio italiano; irregolare ricorre negli articoli che danno conto delle possibilità offerte dalla legge di sanare la posizione lavorativa; extracomunitario è il termine preferito quando l’argomento sono le problematiche del lavoro, con riferimento particolare alle necessità delle aziende italiane, oppure casi di cronaca nera in cui gli immigrati sono colpevoli o presunti tali.
Quindi clandestini e illegali sono nemici da combattere; gli irregolari possono beneficiare della possibilità offerta dalla legge, perché si suppongono onesti lavoratori con qualche bega burocratica da sbrigare; gli extracomunitari devono fare i lavori che gli italiani rifiutano e possibilmente garantirci la pensione, quando non sono delinquenti da sbattere in galera. Se volessimo costruire un’ipotetica scala di valore, che proceda dal termine più spregiativo a quello più ”neutro”, potremmo forse impostarla nel modo seguente: illegaleclandestinoextracomunitarioirregolare.

Induzione semantica
È un fenomeno riscontrabile nel mondo del giornalismo che rischia di accentuare la percezione distorta e negativa che i lettori e i telespettatori hanno dell’immigrazione. L’induzione semantica consiste nell’accostamento di due notizie che può produrre un "significato terzo", un'aggiunta di senso. Prendiamo per esempio il “Corriere della Sera” di venerdì 28 luglio 2006. Esso dedica una pagina di sinistra agli “sbarchi” e una pagina di destra ai fatti di Via Anelli, a Padova. Altri giornali, locali e non, accostano nell’impaginazione le due notizie rendendo ancor più evidente la “connessione” fra immigrazione e criminalità. Non più esplicitata nelle argomentazioni e nei titoli, perché ormai superata dai dati oggettivi sulla delinquenza, l’equazione immigrazione=criminalità viene teorizzata e proposta di fatto con una certa impaginazione e una certa trattazione della notizia. Nessuno vuole negare che i tre fatti siano accaduti: arrivo a Lampedusa di migranti non autorizzati ad entrare in Italia secondo la legge in vigore; complicità in terra di Libia per consentire che partano i barconi della speranza; scontro fra due gruppi di cittadini stranieri a Padova e relativo problema di ordine pubblico e di criminalità.
Quello che la stampa realizza, però, è il collegamento tra questi tre fatti. Nel processo di trasformazione del "fatto" in "notizia", i mass media operano un'aggiunta di senso, una "induzione semantica" che fornisce al lettore un'interpretazione, una chiave di lettura di quanto accade nella nostra società.
L'analisi, l'approfondimento, la comprensione, l'interpretazione del fenomeno immigratorio sono spesso assenti o carenti. Più si allarga lo spazio per drammatizzare la "emergenza immigrazione" e più si alleggerisce la lettura del mondo dei migranti. Ai lettori dei giornali e agli spettatori dei telegiornali non viene fornito uno strumento per capire, ma per giudicare le affermazioni - giuste o sbagliate che siano.

Conclusioni
 Dopo un decennio d’analisi dei media e del loro rapporto con l’immigrazione, verrebbe da chiedersi perchè la stampa non si evolve e non prende coscienza di come realmente stanno i fatti.
Secondo Maurizio Corte, giornalista italiano, la causa di ciò sta nella “presunzione” dei giornalisti di saper leggere, nella fretta e in pochissime ore, i tratti fondamentali di una società, così come nell’impreparazione di molti giornalisti a capire un’Italia che è cambiata e nell’incapacità o nella non volontà di analizzare in modo critico che porta in modo meccanico a catalogare e confezionare fatti e situazioni. Dagli ultimi studi italiani sul giornalismo è emerso che la ricerca del profitto, nelle aziende editoriali, a discapito della qualità dell'informazione, la mancanza, in molti casi, di una preparazione professionale adeguata dei giornalisti che leggono e raccontano la società, le routines redazionali dei mass media che sono fatte per un giornalismo ansioso e ansiogeno, portato più ad aggiornare le notizie che a comprenderle e ad approfondirle, lo stile gridato e drammatizzante che va solo a riempire gli spazi lasciati vuoti dalla pubblicità, portano all’indifferenza verso le espressioni più complesse, più difficili da capire della società.
Il giornalismo è selezione, è decostruzione dei fatti e loro ricontestualizzazione nel formato del notiziario. Ma se tutto questo avviene in un'ottica economicistica, pubblicitaria, dove la professionalità del giornalista e la sua sensibilità personale contano meno delle capacità "manageriali", allora si capisce perché la stampa abbia poco o nessun interesse a fornire chiavi interpretative ai lettori.
Secondo Maurizio Corte il sospetto è che i giornalisti facciano una discriminazione di tipo politico ed economico verso le fasce più deboli della società, come gli immigrati, che subiscono generalizzazioni ed accostamenti senza potersi difendere.
Tutto ciò, unito ad una mancanza di lettura critica, porta moltissimi lettori all’accostamento immigrazione/illegalità/insicurezza.
Va detto però che una buona conoscenza del funzionamento dei media e del loro potere persuasivo porta molti lettori a svincolarsi dalla loro influenza e ad avere una visione più veritiera delle realtà sociali.


3.2  PREGIUDIZIO E DISCRIMINAZIONE
Introduzione
La rappresentazione sociale dello straniero e il sistema di relazioni che si instaura con i gruppi integrati sono stati oggetto della riflessione sociologica dagli inizi del '900 fino ai nostri giorni. Il pensiero sociologico tende a definire una figura la cui rappresentazione sociale si dispone incessantemente in un ruolo duale, come vicino e lontano nello spazio sociale e per questo in grado di suscitare sentimenti contrastanti di curiosità e timore, di attrazione e rifiuto. A volte questo atteggiamento non si ferma alla semplice paura ma sfocia in una vera e propria intolleranza e discriminazione nei confronti dell'oggetto della propria paura.

Il pregiudizio
Lo psicologo della personalità Gordon Willard Allport definì il pregiudizio come “un atteggiamento di rifiuto o di ostilità verso una persona appartenente a un gruppo, semplicemente in quanto un individuo fa parte di questa categoria e viene considerato dotato delle caratteristiche negative attribuite a essa.”  Il pregiudizio viene infatti psicologicamente definito come un’opinione preconcetta, un giudizio lontano dall’obiettività, frutto di semplicistiche generalizzazioni della nostra mente o socialmente appresa, estesa sia alle persone singole, che condivisa dai membri di un gruppo,  che può essere favorevole o sfavorevole alla categoria (etnica o sociale) presa di mira. Il pregiudizio è però generalmente un’attitudine negativa o persino ostile e carica di affettività nei confronti di individui etichettati sotto una determinata categoria, frutto di schemi mentali che interpretano in modo conformistico e semplificatorio, una realtà ben più complessa . E’ infatti una credenza rigida che si fonda su un’impropria generalizzazione e su un errore di giudizio, che consiste nell’attribuire tratti stereotipati a diversi gruppi umani. Possiamo distinguere diverse forme di pregiudizio: -sessuale; -per professione; -per età; -per religione; -per consuetudini; -per provenienza; -per aspetto fisico; -razziale; -etnocentrico;  Il pregiudizio può essere considerato una conoscenza intergruppo riguardante la sfera cognitiva; spesso però, può assumere una componente affettiva (stereotipo) e può addirittura diventare un atteggiamento con forte carica emotiva (discriminazione e distanza sociale). In una società multietnica che ha subito trasformazioni in tempi relativamente brevi, molti soggetti provano confusione e sgomento, perciò si convincono che l’unico sistema di vita accettabile è quello occidentale e che di conseguenza, l’altro sarà costretto ad adattarsi. Il pregiudizio è perciò sia un tipo di atteggiamento che una modalità di discriminazione. Bisogna però aggiungere che secondo alcuni studi condotti da Pettegrew sul pregiudizio nel sud america, riconfermati da M.Sherif, il razzismo non sempre rispecchia i veri sentimenti della popolazione poiché rappresenta una forma di adattamento al fine del consenso sociale. La questione del pregiudizio è un problema della società moderna in quanto porta con sé la discriminazione, che spesso danneggia notevolmente l’autostima, la sicurezza e la motivazione al successo dell’individuo, ma bisogna pur sempre considerare la componente etica e morale che costituisce, sebbene in una parte molto limitata, un sufficiente freno inibitorio alle azioni discriminanti e razziali. 

La “razza” umana: il punto di vista biologico
Le evidenti diversità fisiche esteriori sono state più volte utilizzate per raggruppare gli individui umani. Ma dal punto di vista  biologico, cosa si intende esattamente per razza? In biologia una razza è una categoria di livello inferiore alla specie, detta anche sottospecie; i biologi constatano l’esistenza di una razza quando un gruppo di animali della stessa specie presenta differenze genetiche significative, che lo distinguono da altri individui conspecifici. Nel regno animale è poco comune che una specie si divida in razze. Una sottospecie si genera nel caso di isolamento geografico o per intervento dell’uomo, come è accaduto per le razze canine, prodotte in migliaia di anni di selezione artificiale. La specie umana non fa eccezione nel regno animale. Gli essere umani sono tra loro molto diversi ed è sempre possibile distinguere una persona dall’altro, ma non si riscontrano interi gruppi di esseri umani così diversi dagli altri e così omogenei tra loro da poter essere considerati una razza separata. Dal punto di vista genetico siamo tutti parenti. Questa affermazione è una delle più importanti scoperte della biologia molecolare applicata allo studio dell’origine della nostra specie e rappresenta una vera novità nel mondo dell’antropologia. A partire dal Settecento, infatti gli antropologi avevano più volte tentato di classificare gli esseri umani, prendendo in considerazione caratteri quali la forma della testa, il colore della pelle o il taglio degli occhi. L’esistenza delle razze umane era data per scontata, nonostante le contraddizioni fossero molte, prima tra tutte il fatto che antropologi diversi individuavano un numero di “razze” molto variabile: da due a oltre cinquanta. Non si trovava un modo univoco per dividere le persone in modo netto tra diverse categorie biologiche. La scelta di singoli caratteri per dividere l’umanità in gruppi distinti è infatti arbitraria. Si potrebbe stabilire come criterio il gruppo sanguigno 0, A, B, AB o il colore della pelle, bianca o nera, o il taglio degli occhi, in ogni caso si creano gruppi completamente diversi. Per il colore della pelle, poi, si aggiunge un ulteriore elemento di arbitrarietà: questo carattere varia gradualmente dallo scuro al chiaro e ci rende impossibile la classificazione delle persone in gruppi ben definiti. Come non esistono solo gli individui alti e quelli bassi, non esistono nemmeno quelli neri e bianchi. Inoltre, le razze individuate con il metodo degli antropologi classici sono unità tassonomiche arbitrarie anche perchè spesso si basano su caratteri che rispondono a particolari condizioni ambientali e climatiche. Le unità tassonomiche reali, quelle che hanno un vero significato biologico, non devono essere fondate su convergenza indotte dall’ambiente ma su somiglianze genetiche. Il caso del colore della pelle è evidente: più ci si avvicina all’equatore, più è facile trovare persone scure di carnagione.
Purtroppo per molto tempo l’atteggiamento culturale di dare per scontata l’esistenza delle razze, definito il “pregiudizio della razza”, è stato predominante e in molte occasioni nella storia è servito come alibi per giustificare nefandezze, sfruttamenti e privilegi.
A partire dalla seconda metà del XX secolo, grazie alle nuove tecniche disponibili, è stato possibile indagare oggettivamente le somiglianze e le differenze genetiche presenti nelle popolazioni umane. Negli anni 70 il genetista statunitense Richard Lewontin ha individuato nuovi dati importanti che mettevano in discussione l’esistenza delle razze. Dall’analisi statistica delle sequenze di proteine estratte da individui provenienti da più parti del mondo emergeva una realtà interessante. Considerata pari a cento la variabilità umana massima (quella riscontrabile tra individui provenenti da continenti lontani), quella tra individui dello stesso continente risultava di poco inferiore (intorno al 90%) e quella tra persone della stessa popolazione dell’85%. Contrariamente alle attese, si è scoperto che l’85% di tutta la variabilità umana è all’interno della stessa popolazione, mentre solo una minima parte (di 15%) della diversità genetica è di origine geografica e attribuibile al fatto di provenire da popolazioni diverse.
In seguito, sono stati effettuati studi analoghi sul DNA e le cifre ottenute sono molto simili. Quindi è vero che un aborigeno australiano è un po’ più diverso da un italiano di quanto non lo sia un francese, ma la differenza è irrilevante rispetto al totale della variabilità. Lo studio della biologia quindi permette di affermare che gli esseri umani non possono essere distinti in razze, tantomeno in razze inferiori o superiori.
Il termine “razza” è ancora facile da trovare nel mondo della medicina, soprattutto per indicare la provenienza di un paziente, un dato utile per lo studio della distribuzione geografica di alcune malattie. In questo caso, però, l’utilizzo del termine non è tassonomico ma pratico. Resta l’errore scientifico, che andrebbe corretto anche nel linguaggio medico per non creare idee sbagliate: l’uguaglianza umana è un dato di fatto biologico.
Siamo gli animali che viaggiamo di più, una vera e propria specie di migranti. Ecco perché ci siamo sempre incontrati ed incrociati rimanendo geneticamente simili. I periodi di isolamento tra i gruppi umani sono stati relativamente bervi ed hanno prodotto popolazioni, contraddizioni culturali, religiose e dalle caratteristiche somatiche diverse, ma non tanto diverse da poterle chiamare razze. Albert Einstein aveva compreso questo fatto già negli anni 30: al suo sbarco negli Stati Uniti, profugo dalla persecuzione nazista conto gli ebrei, alla voce ”razza” sul foglio di immigrazione scrisse semplicemente “umana”. Non era solo una dichiarazione politica, ma un’intenzione geniale del grande scienziato.

La discriminazione
La discriminazione può essere definita come un trattamento differenziale e ineguale delle persone o dei gruppi a causa delle loro origini, delle loro appartenenze, delle loro apparenze (fisiche o sociali) o delle loro opinioni, reali o immaginarie. Il che comporta l’esclusione di certi individui dalla condivisione di determinati beni sociali (alloggio, lavoro, etc.).
Le forme di discriminazione cui le persone immigrate vanno incontro quotidianamente sono sostanzialmente di forma “diretta” o “indiretta”. Si ha discriminazione diretta, per esempio, quando per il solo fatto di essere immigrato, un soggetto è escluso da un certo rapporto economico, come accade a proposito degli affitti delle abitazioni, quando si specifica che non si desiderano inquilini immigrati. Si ha “discriminazione indiretta” quando disposizioni e pratiche sociali apparentemente neutre e dotate di fondamenti razionali di fatto penalizzano o favoriscono alcuni gruppi etnici, nonostante la volontà formale (di una legge o di un comportamento) di non discriminare. Un esempio di questo tipo di discriminazione può essere la richiesta di manodopera straniera per svolgere lavori che i cittadini autoctoni si rifiutano ormai di effettuare. Un’azione che senza volerlo direttamente, alimenta l’idea che gli immigrati abbiano un diritto al lavoro limitato agli ambiti meno qualificati.  L’ambito lavorativo è destinato d’altronde a far emergere vari livelli di discriminazione: dall’ingresso nel mondo del lavoro, dove a parità di requisiti l’immigrato viene costantemente penalizzato come dimostrano numerose ricerche sul campo; alle condizioni d’impiego che spesso vedono l’immigrato svolgere mansioni non adeguatamente retribuite rispetto all’effettivo orario di lavoro; fino alle prospettive di carriera, che nel nostro paese diventano, per gli immigrati ma non solo, sogni proibiti che si infrangono contro il pregiudizio ma anche, e soprattutto, contro cavilli burocratici che difficilmente riconoscono il giusto valore a un titolo di studio straniero (non certo risolvibili con la sola concessione della cittadinanza, come insegnano i casi di discriminazione indiretta). La legge italiana definisce la discriminazione come:
"ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale ed in ogni altro settore della vita pubblica" (l.6.3.1998 n.40, art.41; d. Lgs. 25.7.1998 n.286, art.43). Per questo chi ha subito un atto discriminatorio può presentare un ricorso al tribunale della sua città e qualora il giudice accetti la richiesta, adotta con chi ha compiuto l’atto discriminatorio dei provvedimenti immediatamente esecutivi. Inoltre il giudice può stabilire anche un risarcimento dei danni; i danni risarciti non sono solo quelli materiali, come per esempio l’esclusione dalla scuola, ma anche quelli definiti morali, che hanno procurato alla vittima delle sofferenze.
Al giorno d’oggi non c’è stereotipo coniato appositamente per gli immigrati, che non sia stato, un secolo fa, attribuito a noi stessi. Gian Antonio Stella nel suo libro:”L’orda, quando gli albanesi eravamo noi”, riporta alcuni esempi di stereotipi e pregiudizi diffusi intorno agli anni ’80 rivolti agli italiani immigrati all’estero.
Tra i più diffusi troviamo:
1              CRIMINALI: gli italiani sono persone sempre pronte a litigare, con poco controllo di sé, accoltellatori, assassini, carbonari e banditi. Ma ancora peggio sono mafiosi, dediti all’omicidio, al ricatto e al furto. Negli Stati Uniti hanno fondato 24 gruppi criminali e i loro membri sono italiani per nascita o per origine. I siciliani eredi di banditi fuori legge hanno instaurato questo loro modo di vivere insieme all’omertà delle società del loro paese. Nelle città dove ci sono catapecchie i briganti italiani trovano maggiori opportunità in quanto sono più comode e sicure dei loro boschi italiani
2              FANNULLONI: sono briganti, lazzaroni e fannulloni. Quelli delle classi inferiori sono mendicanti a causa dell’ignoranza, della dipendenza e della povertà. Pensano che tutto sia dovuto loro e pretendono che sia fatta loro la carità. Pur di guadagnare sono disposti a vendersi i figli che vengono sfruttati da altri.
3              SPORCHI:gli italiani amano lo sporco che li circonda e queste condizioni vengono utilizzate per attirare pietà ed elemosina. Si ammassano in una stessa stanza con animali e sconosciuti creando un miscuglio di odori e trascurando molto l’igiene. Inoltre trascurano i figli, facendoli vivere in scantinati e soffitte.
4              IGNORANTI: Odiano studiare, fanno pochi progressi e lasciano la scuola alla prima opportunità inquinando la cittadinanza intelligente. Hanno una mente più limitata di un bue e la loro capacità mentale è paragonabile a quella delle pecore.
5              FALSI CRISTIANI: la fede degli italiani è solo un’usanza, la moralità non ha niente a che fare con la religione. Inoltre si definiscono cattolici ma in verità non sanno affatto cosa si intende per vita cristiana.

Troviamo cosi un riscontro tra i  pregiudizi verso gli italiani, citati nel libro di Stella, e quelli della realtà attuale. Ad esempio il fatto di giudicarli come criminali viene alimentato dall'induzione semantica dei mass media, che tendono ad evidenziare i fatti di cronaca nera che hanno per protagonisti gli immigrati.
Per quanto riguarda i pregiudizi derivati dalla società possiamo notare un cambiamento: come conseguenza al fenomeno di un'immigrazione massiccia, di alcuni anni fa, da parte degli albanesi verso il nostro Paese, si era diffusa la tendenza a definire tutti gli immigrati come albanesi. Oggi invece questo generalizzare si è modificato in quanto non si prende più come riferimento uno specifico paese, ma si tende a considerare tutti come immigrati.
Altri pregiudizi rimasti tuttora in uso sono: sporchi, fannulloni e ignoranti.

3.3 DEVIANZA E IMMIGRAZIONE
Introduzione 
Chi trasgredisce le norme di comportamento di una società si pone in una situazione di contrasto con l’ordine sociale cioè devia dai modelli di comportamento proposti da quella particolare società. Generalmente si definisce quindi  la devianza come  quell'insieme di comportamenti che infrangono il complesso dei valori che, in un dato momento storico e in un determinato contesto sociale, risultano validi e fondanti in base alla cultura del gruppo sociale dominante. Per l’osservazione sociologica infatti non esistono comportamenti in se stessi devianti ma un comportamento è deviante solo rispetto a un modello di comportamento condiviso dalla società. Il concetto di devianza non è né univoco e uguale per tutti né valutativo poiché dire che un certo comportamento è deviante non significa dire che esso è errato ma solo che è diverso da ciò che la maggioranza considera il comportamento corretto. Se è vero che il delinquente è anche un deviante, un deviante non è necessariamente un delinquente. Devianza e delinquenza, quindi, non sono comportamenti definibili in assoluto, ma in funzione del contrasto tra determinati comportamenti e le regole sociali. La società inoltre attraverso forme di punizioni chiamate sanzioni  disincentiva  i comportamenti che violano qualcuna delle norme condivise. Non si deve pensare però che le sanzioni siano solo di tipo giuridico poiché le maggior parte di esse sono informali e consistono in forme di pressioni che la società esercita sull’individuo perché questi si conformi alla norme e alla cultura dominante.
Una forma particolare di devianza è la criminalità ovvero l’insieme di quei comportamenti devianti che la società vieta e sanziona formalmente attraverso le leggi. Dal punto di vista sociologico comunque più rilevante del singolo crimine è il modo in cui certe persone si avviano verso una vita fondamentalmente e globalmente deviante rispetto alla società, ossia il modo con cui nella società si vanno formando le cosiddette carriere devianti. A tutti può capitare di trasgredire una norma sociale o anche una legge ma ciò non basta perché si diventi strutturalmente devianti rispetto alla cultura dominante; perché questo avvenga è necessario che si presentino delle altre condizioni come per esempio la stigmatizzazione o il contatto con un certo tipo di contesto sociale.

Orientamenti teorici
Le teorie che si sono proposte di spiegare la criminalità e la devianza in genere, si sono distinte in base alle scuole di pensiero che le elaboravano in due orientamenti: l'indirizzo individualistico e l'indirizzo sociologico. Il primo, incentra il suo studio sulla personalità del singolo individuo delinquente ed individua le cause della criminalità nei fattori endogeni: esso sostiene la predisposizione individuale alla delinquenza, cioè la probabilità dei soggetti segnati da certe caratteristiche di pervenire al crimine.
Viceversa, il secondo, movendo dal postulato che il reato non è un fatto individuale isolato ma un prodotto dell'ambiente, incentra lo studio della criminalità sulla realtà socio-ambientale e di conseguenza ricerca le cause della delinquenza in fattori esogeni. Tre sono le principali teorie che hanno trovato una spiegazione alla devianza su questa base: le teorie della Scuola di Chicago, la teorie dell’anomia e la teorie dell’etichettamento.

La scuola di Chicago
La scuola di Chicago affronta il tema dello sviluppo e del cambiamento del comportamento umano indotto dall'ambiente fisico e sociale in cui si vive, considerando la comunità come il principale elemento di influenza sul comportamento dei singoli, compiendo studi sull'individuo e le città. Gli studiosi di scienze sociali all'inizio del XX secolo si confrontarono con molti fenomeni sociali inediti, tra i quali l'industrializzazione, lo sviluppo delle grandi città, l'immigrazione di massa. In particolare considerarono le città come principali responsabili dei problemi sociali. In base alle osservazioni compiute, da cui risultava evidente che la città fosse un luogo dove la vita sociale è superficiale, le persone sono anonime, le relazioni transitorie, i ricercatori definirono l'indebolimento delle relazioni sociali primarie come un processo di disgregazione sociale, che diventò la principale chiave di lettura dell'origine della criminalità. Gli studiosi di questa scuola avevano intuito che nelle periferie delle città, le zone più degradate e con maggiore presenza di immigrati, vi era maggiore disgregazione sociale e di conseguenza una maggiore tendenza a deviare. Nelle periferie quindi venivano a crearsi delle subculture devianti rispetto alla cultura dominante delle città e i giovani che vi vivevano avevano maggiori possibilità di stare a contatto con individui criminali subendone l’influenza.  E’ molto difficile infatti per una persona sottrarsi alla pressione sociale dell’ambiente circostante e se tale pressione sociale spinge alla disapprovazione  del comportamento deviante la persona maturerà con una certa probabilità un comportamento integrato nella cultura dominante, mentre se essa spinge verso la devianza la persona sarà più portata a sviluppare una carriera deviante. La devianza in questo modo può essere considerata un tipo particolare di conformismo sociale: ci si conforma alla cultura che domina l’ambiente circostante che corrisponde alla subcultura caratteristica del proprio gruppo sociale di appartenenza.
L’approccio fondamentale per la scuola di Chicago è stato l'interazionismo simbolico che si sviluppa dall'idea che il comportamento umano sia il prodotto di simboli sociali scambiati tra individui. L'idea basilare è che la mente e il sé non sono elementi innati, ma sono costruiti dall'ambiente sociale: è attraverso il processo comunicativo o di simbolizzazione che gli individui definiscono se stessi e gli altri. Infatti sono i simboli, che recano in sé dei significati, ad influenzare il nostro modo di vedere la realtà che ci circonda. Noi tendiamo ad autodefinire noi stessi anche in base alla percezione di ciò che gli altri pensano di noi. In altre parole definiamo la nostra identità riflettendoci negli altri; possiamo perciò avere molte identità in relazione al contesto in cui ci troviamo. Nella vita sociale, può capitare di inquadrare la situazione in modo errato e di comportarsi in modo non conforme. Bisogna, dunque, definire la situazione correttamente per rispondere con una forma accettabile di comportamento.Tutto ciò permise alla Scuola di Chicago di comprendere la devianza, considerando il comportamento umano come "relativo". Il comportamento umano, quindi, non sarebbe governato da nessun sistema di regole universali, né da principi assoluti.
Teoria dell’anomia
Il concetto di anomia è legato al lavoro di due studiosi: Emile Durkheim e Robert Merton.
Per Durkheim il termine "anomia" è associato alla mancanza di norme all'interno di una società, in riferimento al fatto che, quando le regole procedurali generali (quelle rivolte al comportamento da seguire nei rapporti con gli altri) si svuotano di efficacia e di significato, le persone non sanno più cosa aspettarsi l'una dall'altra. Quando le persone vivono in uno stato anomico hanno uno scarso controllo sul loro comportamento poiché non si sentono vincolati né dalle norme e dalla società né dai suoi membri. Di conseguenza, venendo a mancare i parametri con i quali veniva valutato, giudicato e orientato il proprio comportamento, la tendenza a deviare è maggiore.Merton invece notò che all'interno della società certe mete vengono messe in risalto più di altre (ad esempio il successo economico) e che la società ritiene legittimi certi mezzi per raggiungerle. Quando quelle mete vengono enfatizzate in modo pressante, si creano le condizioni per l'anomia: non tutti gli individui hanno uguale possibilità di successo economico con mezzi legittimi, di conseguenza tenteranno di raggiungere la stessa meta anche con mezzi illegittimi. A causa della disgregazione sociale non tutte le mete del successo sono accessibili a tutti. Certi gruppi sociali, come le classi inferiori e le minoranze, possono trovarsi svantaggiati qualora cerchino di guadagnare posizioni di successo subendo così la condizione anomica
Teoria dell’etichettamento
All'inizio degli anni sessanta molti studiosi sostennero che le teorie del passato avevano prestato eccessiva attenzione alla devianza individuale trascurando i vari modi in cui la società reagiva ad essa. La  posizione teorica di questi studiosi venne denominata scuola della percezione sociale. Questa scuola si rifaceva alla teoria dell’etichettamento che ponendo la figura del criminale in secondo piano, mostrava interesse nei confronti delle agenzie preposte al controllo del crimine (polizia, magistratura). Secondo Becker, uno dei principali teorici della scuola, la devianza dipende dal punto di vista di chi osserva, poiché i membri dei vari gruppi hanno concezioni differenti di ciò che è giusto e conforme, che variano a seconda delle situazioni. Inoltre la devianza, per essere considerata tale, deve essere scoperta da qualche gruppo che non ritiene conforme un dato comportamento. Se la legge rispecchia i valori di quel gruppo, il comportamento verrà considerato un reato e il suo autore sarà un criminale. Quindi secondo Becker i gruppi sociali creano la devianza stabilendo delle regole la cui violazione costituisce un atto deviante. Da questo punto di vista, la devianza non consiste nella qualità dell'atto che una persona commette, ma è una conseguenza dell'applicazione delle regole e sanzioni su di un reo. Tutti trasgrediscono e violano le norme sociali, si pensi per esempio ai bambini che violano spesso le norme poichè ancora non le conoscono. Quando si viola una norma sociale si subiscono delle sanzioni imposte dalla società di appartenenza. Quando la trasgressione è per la società particolarmente grave si può innescare un meccanismo perverso che non produrrà la limitazione dei comportamenti devianti ma al contrario porterà alla costruzione di una vita caratterizzata dalla tendenza a deviare. Tale meccanismo ha inizio quando la società applica a colui che devia lo stigma o etichetta di deviante, in questo modo l’individuo viene disapprovato dagli altri e considerato come trasgressore, deviante. Ne consegue che chi subisce una stigmatizzazione o un etichettamento diviene agli occhi di chi lo circonda non qualcuno che ha compiuto un comportamento deviante, ma  qualcuno che potrebbe tornare a deviare, è considerato cioè un criminale, una persona la cui vita è dedita al crimine, e non una persona che semplicemente ha commesso un crimine. Importanti sono  le conseguenze subite dalle persone etichettate che si possono rilevare in due aspetti: da un lato gli effetti criminogeni dell'etichetta di deviante, dall'altro gli effetti dell'etichetta sull'immagine di sé. Entrambi i processi possono portare ad un'espansione della devianza, dando avvio ad una carriera deviante. L'individuo secondo Lemert non valuta l'impatto che l'atto iniziale  può avere sull'immagine di sé. Ognuno ha una propria sensibilità alla reazioni altrui. La persona etichettata, se non ha un'immagine di sé ben definita, può arrivare ad accettare quella offertagli dagli altri, modificando così la propria identità. La devianza, dunque, viene acquisita attraverso un processo di scambio reciproco, che ha termine quando la persona etichettata accetta l'etichetta come un'identità reale. Ne consegue spesso che il deviante entra a far parte di una subcultura che produce ulteriore devianza.
Varie teorie sulla devianza degli immigrati
Ci sono  tre teorie fondamentali, quelle di Sellin: la prima viene chiamata "Del conflitto di culture", la seconda "Del controllo sociale" la terza "Della tensione e della privazione relativa"

Teoria del conflitto di culture
Ogni società  ha le proprie norme di condotta, che vengono trasmesse da una generazione all'altra. Nelle società semplici, culturalmente omogenee vi è una tendenza all'armonia e all'integrazione: le norme di condotta diventano leggi e godono di un consenso generale. Nelle complesse società moderne, invece, i conflitti fra le norme dei diversi gruppi diventano frequenti.  
Secondo Thorsten Sellin chi commette un reato lo fa perché resta fedele alle norme di condotta del suo gruppo di appartenenza, ai valori che ha interiorizzato nei primi anni di vita.
I conflitti culturali possono essere di due tipi: conflitti primari, quelli, cioè determinati dall'attrito tra differenti culture e i conflitti secondari che hanno luogo invece nell'ambito stessa cultura.
I conflitti primari si verificano quando i sistemi culturali si sovrappongono: finché non si raggiunge  una piena integrazione, il persistere dei valori culturali di origine crea conflitto con i nuovi valori.
Chi emigra porta con se un bagaglio culturale fatto di credenze e valori che nessuno può sequestrare alla frontiera,
inoltre tende a rimanere più fedele e più legato alla cultura d’ origine, la quale a volte può incoraggiare o ritenere legittimi dei comportamenti che invece vengono condannati dalla cultura del paese in cui si emigra.
Secondo il sociologo  Marzio Barbagli, il difetto principale di tale teoria è di sopravvalutare le differenze esistenti fra le società nelle regole di condotta e nelle leggi penali. Infatti gran parte degli atteggiamenti considerati devianti o criminali dalla società d’accoglienza, sono ritenuti tali anche in quella d’origine.



Teoria del controllo sociale
Essa sostiene che le probabilità che una persona violi la legge sono tanto minori  quanto più numerosi  e forti sono i vincoli che lo legano agli altri. Una persona infatti tende a non deviare perché frenata da due tipi di controllo, esterno e interno.
I controlli esterni sono le varie forme di sorveglianza esercitate per scoraggiare o impedire, con la minaccia o l'uso di sanzioni, i comportamenti devianti. I controlli interni si distinguono tra diretti (sentimenti di colpa e di vergogna che prova chi viola una norma) e  indiretti che si manifestano nel desiderio di non perdere la stima e l'affetto delle persone più care. Quanto più una persona è legata ai genitori, ai parenti, agli insegnanti, agli altri significativi, tanto più è difficile che infranga le leggi. Tra i membri di una comunità c’ è un continuo controllo reciproco e ognuno si sente legato a precisi vincoli sociali che ha appresso ancora da bambino mediante l’ educazione. Quando una persona emigra, viene a mancare questo tipo di reciproco controllo poiché l’immigrato, non sentendosi un membro effettivo né della propria società d’origine né della società d’adozione, non si sente di conseguenza vincolato dalle norme e dai valori dei nessuna delle due società. Utilizzando un concetto ripreso più volte da Durkheim, l’immigrato vivrebbe quindi in uno stato anomico, di assenza di norme e sarebbe di conseguenza più portato a deviare.

La teoria della tensione e della privazione relativa

Per la teoria della tensione e della privazione relativa, l'individuo durante l'infanzia e l'adolescenza interiorizza le norme della società in cui vive ed è portato a seguirle.

Essa ci serve innanzitutto a spiegare una sorprendente differenza che si ha nel nostro Paese, sia gli immigrati regolari che quelli irregolari violano più spesso le leggi nel Nord che nel Sud. Partendo dalla più favorevole situazione del mercato del lavoro, delle regioni settentrionali, si potrebbe ipotizzare l'opposto. Non vi è dubbio, infatti, che in queste regioni è più facile per gli immigrati trovare un lavoro stabile, continuo, con una retribuzione discreta. Ma secondo i sociologi Mottura e Pugliese, per i cittadini extracomunitari, vi sono maggiori possibilità di inserimento nel Sud. Nell'industria e nel terziario è più facile trovare un'occupazione senza il permesso di soggiorno, e dunque per gli immigrati irregolari, vi sono maggiori possibilità di sopravvivere senza ricorrere ad attività illecite. Nelle metropoli sempre più caratterizzate dalla deindustrializzazione e dallo sviluppo del "terziario avanzato" gli unici posti disponibili e opportunità professionali per i nuovi arrivati  sono quelli in fondo alla scala delle carriere, delle mansioni e anche delle tutele e dei diritti. Questi tipi di lavori sono quelli dove si registra con maggiore frequenza l'occupazione irregolare e il lavoro nero, la difficoltà nel fare rispettare i contratti, forme di sfruttamento dei lavoratori. Nel Nord gli standard a cui l’ immigrato deve arrivare per poter inserirsi socialmente sono più alti di quelli del Sud. Un’ulteriore spiegazione alla minore devianza presente nel Sud, potrebbe consistere nell’atteggiamento maggiormente tollerante da parte della popolazione autoctona e delle autorità nei confronti di alcuni comportamenti devianti di minore gravità. Inoltre, rifacendosi alle teorie di Durkheim si potrebbe ipotizzare che le regioni meridionali offrano all'immigrato un tessuto sociale più simile a quello del proprio paese d'origine, attenuando così gli effetti dello sradicamento e rimuovendo la condizione anomica che spingerebbe l'immigrato al comportamento deviante. Si pensa inoltre che la presenza radicata nel territorio della criminalità organizzata locale lasci poco spazio a quella d'altra matrice; nel Mezzogiorno si può dire che la possibilità di deviare è minore perché il contesto stesso è già piuttosto deviante.

 

REGIONI
Totale presenti
Di cui stranieri
%sui presenti
%sul tot stranieri
Tot
residenti
Stranieri soggiornanti
%su residenti
% su tot stranieri
Piemonte
4.382

1.651
37,7
10,0
4.289.714
95.872
2,2                
7,0
Valle d’Aosta
232
110
47,4
0,7
121.138
2.730
2,3
0,2
Lombardia

8.009
2.932
36,6
17,8
9.154.832
313.586
3,4
23,0
Trentino-Alto Adige
347
157
45,2
1,0
949.018
33.331
3,5
2,4
Veneto

2.587
1276
49,3
7,7
4.559.995
127.588
2,8
9,4
Friuli -Venezia Giulia
767
361
47,1
2,2
1.188.582
40.985
3,5
3,0
Liguria

1.610
776
48,2
4,7
1.613.628
32.688
2,0
2,4
Emilia Romagna
3.309
1.446
43.7
8.8
4.022.662
126.584
3.2
9.3
Toscana

4.114
1.657
40,3
10,0
3.551.177
94.467
2,7
6,9
Umbria

1.071
451
42,1
2,7
842.703
26.797
3,2
2,0
Marche

745
260
34,9
1,6
1.474.502
39.211
2,7
2,9
Lazio

5.137
1.954
38,0
11,8
5.320.757
236.359
4,4
17,3
Abruzzo

1.596
480
30,1
2,9
1.283.448
18.072
1,4
1,3
Molise

366
75
20,05
0,5
326.655
2.130
0,7
0,2
Campania

6.893
774
11,2
4,7
5.790.634
63.681
1,1
4,7
Puglia

4.272
510
11,9
3,1
4.089.137
32.590
0,8
2,4
Basilicata

603
189
31,3
1,1
603.692
3.136
0,5
0,2
Calabria

2.016
367
18,2
2,2
2.039.653
13.654
0,7
1,0
Sicilia

6.025
694
11,5
4,2
5.074.293
47.904
0,9
3,5
Sardegna

1.670
391
23,4
2,4
1.647.140
11.265
0,7
0,8
ITALIA

55.751
16.511
29,6
100,0
57.943.360
1.362.630
2,4
100,0
NORD

21.243
8.709
41,0
52,7
25.899.569
773.364
3,0
56,8
CENTRO
11.067
4.322
39,1
26,2
11.189.139
396.834
3,6
29,1
SUD

23.441
3.480
14,9
21,1
20.854.652
192.432
0,9
14,1


Come si può vedere dalla tabella, i detenuti stranieri del nord presenti negli Istituti Penitenziari sono maggiori di quelli presenti nel Centro e nel Sud; infatti nel Nord i detenuti sono il 52,7%  mentre nel Centro e nel Sud sono rispettivamente il 26,2%  e il 21,1%. Guardando alle regioni, possiamo dire che la criminalità straniera abbia il suo picco in Lombardia, dove sono presenti il 17,8% dei detenuti stranieri sul totale, seguita dal Piemonte, dove la percentuale si attesta al 10%., dall’Emilia e dal Veneto.
Tra le regioni invece ad avere una percentuale minima di criminalità vi è  il Molise, con lo 0,5% dei detenuti stranieri sul totale, il Friuli con lo 0,7%, il Trentino con l’1,0%, la Basilicata con l’1,1% e le Marche con l’1,6%.
Da questi ultimi dati possiamo notare come alcune regioni del Nord, Valle d’Aosta, Trentino e Friuli, non abbiano tassi di criminalità straniera elevati al contrario di quanto verrebbe da affermare se ci attenessimo alla teoria di Sellin. La spiegazione a ciò risiede nella proporzione fra il numero di stranieri residenti  e il rispettivo tasso di criminalità. Si può notare infatti che nelle regioni dove la percentuale di detenuti stranieri risulta più elevata, è anche maggiore la quota di stranieri soggiornanti. In Lombardia è vero che la percentuale di criminalità straniera è molto alta, ma lo è anche la presenza; infatti gli stranieri soggiornanti in questa regione sono il 23% sul totale presente in Italia, mentre in Molise la percentuale dei detenuti stranieri è molto bassa ma lo è anche quella degli stranieri presenti (0,2%).
La teoria della tensione e della privazione relativa ci aiuta anche a spiegare le differenze tra immigrati di prima e di seconda generazione. Gli immigrati di prima generazione emigrano generalmente per lavoro, desiderando di tornare primo o poi nel proprio paese d’origine; di conseguenza accettano le condizioni di inferiorità in cui si vengono a trovare perché consapevoli che, essendo stranieri, non hanno nessun potere contrattuale nei confronti della società autoctona. I figli di questi, che costituiscono gli immigrati di seconda generazione, al contrario dei genitori non hanno come riferimento la loro società di provenienza dei, ma la società in cui sono nati. Le loro aspirazioni sono dunque molto più elevate, poiché non potendo tornare al loro paese d’origine desiderano ormai frasi strada in quello in cui sono cresciuti.  Seconda la definizione data da Merton di anomia, gli immigrati di seconda generazione fanno propria la meta del successo economico ma si accorgendosi che per loro è difficile raggiungerla, cercano di arrivarci per vie illecite. Secondo Blau, Farnworth e Leiber  il sorgere della delinquenza si collegherebbe infatti al fallimento dell'integrazione sociale degli immigrati e alla loro conseguente collocazione nei segmenti più bassi del mercato del lavoro.  L'assenza di legami familiari, di protezione legislativa, di garanzie statali e di risorse economiche favorisce l'inserimento dell'immigrato nell'economia illegale.
La mancata integrazione sociale e soprattutto economica sembra essere quindi profondamente collegata alla devianza degli immigrati. Dove avviene l'integrazione, la propensione a delinquere è contenuta.

Teoria dell'etichettamento                                     

Molte ricerca sociologiche e criminologiche sottolineano l'importanza dell'influenza dei meccanismi di costruzione e di interazione sociale nella formazione della devianza. Questo approccio è stato utilizzato anche per lo studio della devianza degli immigrati. La costruzione sociale della devianza dell'immigrato ha il suo inizio nella stigmatizzazione posta dalla società sullo straniero che diviene sia la causa che l'effetto della sua emarginazione. Molto spesso la società autoctona giudica ed etichetta come criminali gli immigrati. Questi, se non hanno un’immagine di sé ben definita, possono arrivare ad accettare quella offertagli dagli altri, finendo così per divenire effettivamente dei criminali.



3.4 IL DIVERSO NELLA FILOSOFIA

Diversità e uguaglianza
Fin dall’antica Grecia questo tema è stato molto discusso in filosofia.
Una delle visioni più importanti è quella del cosmopolitismo, cioè una concezione non localista e non nazionalista dei rapporti fra gli uomini: il superamento delle barriere culturali e politiche fra gli stati, la preferenza accordata alla "comunità della ragione". Un esponente di questa teoria fu Democrito, dalla cui citazione “ogni luogo del mondo è casa per l’uomo saggio”, fa partire le sue riflessioni; non ci sono più distinzioni create dalla polis di appartenenza, poiché ogni uomo è accomunato dalla sua essenza, e quindi, ogni uomo e uguale in quanto accomunato dal suo essere.
Contemporanei di Democrito e sostenitori di un’idea simile furono i Sofisti, che viaggiarono molto e conobbero molte differenze culturali, ma non pensarono che la loro cultura fosse superiore a quella di ogni altro popolo, ma che ogni cultura seguisse la legge della natura. Questa visione è detta relativismo culturale; secondo questa visione non esiste un'unità di misura universale per la comprensione dei valori culturali, poiché ogni cultura è portatrice di istituzioni ed ideologie che non avevano validità al di fuori della cultura stessa.
In opposizione a queste due correnti emerse Aristotele che con “uomo” intendeva ogni cittadino, cioè ogni uomo coinvolto nella politica, greco e libero, quindi da queste definizioni sono esclusi tutti i “non greci” (i barbari destinati ad essere conquistati dai greci), gli schiavi e le donne, che non sono in grado di usare la razionalità in quanto escluse dal mondo politico.
Il tema della diversità fu trattato anche nel periodo romano dai filosofi stoici Seneca e Marco Aurelio. Intorno al I secolo d.C. Seneca affermò più volte l’uguaglianza tra gli uomini e per questo motivo considerò sbagliata la schiavitù: l’uomo va giudicato per le sue azioni e non per la sua condizione sociale; questa dottrina è stata ricavata dall’epistola 47 delle “Lettere a Lucilio”.
Questo pensiero fu ripreso un secolo dopo dall’imperatore-filosofo Marco Aurelio che fu l’ultimo esponente dello stoicismo come corrente filosofica.
Con la scoperta delle americhe si sviluppò l’etnocentrismo, ovvero la tendenza tipica dell’Occidente a giudicare le altre culture con i propri mezzi di giudizio che non sono universalmente accettati, ma sono storicamente e geograficamente influenzati.
In questo periodo Montaigne criticò fortemente l’etnocentrismo: i criteri con i quali giudichiamo un contesto culturale non possono essere uniformi, ma devono scaturire dal contesto stesso, in quanto non c’è nulla di universalmente diffuso. Montaigne si avvicinò in modo netto al relativismo e invitò tutti gli uomini a liberarsi dai pregiudizi e ad interpretare con maggiore attenzione le culture diverse dalla propria, privi della convinzione che il nostro mezzo di giudizio è un mezzo di giudizio universale. Inoltre Montaigne svuotò il valore del giudizio valutativo delle categorie usate per etichettare le diversità, evitando di utilizzare termini come “selvaggi” o “barbari”.
Verso la fine del XVIII secolo, nel periodo della rivoluzione francese, le idee sull’uguaglianza furono riprese da Rousseau. Nel “Discorso sull'ineguaglianza” affermò con decisione che la diversità non avesse origine nello stato di natura, ma che si fosse generata assieme alla formazione della società, e che fosse al contempo illegittima e dannosa per la moralità e per il benessere dell'umanità. Rousseau contrappose nettamente uno stato di natura in cui l'uomo, autosufficiente e isolato rispetto ai suoi simili, era spontaneamente buono e in armonia rispetto a sé stesso e all'ambiente circostante con uno stato civile dominato dalla competizione, dalla falsità, dall'oppressione e dai bisogni superflui. Auspicò quindi, nella conclusione, che si potesse, senza dover necessariamente tornare allo stato di natura, costruire uno stato civile giusto che emendasse i danni morali e materiali in cui l'uomo si dibatteva.
Successivamente queste teorie furono recuperate da una corrente tedesca, chiamata idealismo, di cui i maggiori esponenti furono Fichte e Hegel. Per idealismo si intende, in filosofia, una visione del mondo secondo cui tutto ciò che è reale è già contenuto preliminarmente (a priori) nella nostra mente e creato da essa (dall’io).  Secondo la visione hegeliana lo stato rappresenta la guida ai comportamenti etici che gli individui dovrebbero seguire; quindi per Hegel ogni individuo deve seguire le disposizioni dello stato e per ogni cittadino la vera libertà è rappresentata dal seguire le norme e i precetti che lo stato impone in quanto esso è etico.  Quindi, secondo Hegel, ogni individuo è accomunato dal suo essere sotto il comando di uno stato. Secondo Hegel, poi, in ogni periodo storico c’è uno stato che fa da guida, anche culturale agli altri,  e che, nei suoi giorni, doveva essere la Germania; questa concezione era stata affermata anche un secolo prima da Fichte.  I due filosofi furono ripresi a modello dal nazismo in quanto vennero considerati dei teorici della supremazia dello stato tedesco e, di conseguenza, anche della razza ariana.
Verso la metà del 1800 a trattare questi temi fu uno dei più grandi filosofi di quel tempo: Marx.    Alla base della teoria marxista si trova il lavoro, che per Marx è ciò che distingue l’uomo dall’animale. Ma nella società capitalistica, che ha caratterizzato l’ottocento dopo la rivoluzione industriale, il lavoro ha assunto una connotazione negativa poiché, attraverso lo sfruttamento del lavoro per ottenere nuovi capitali e, quindi arricchirsi sempre di più, il capitalista porta l’operaio all’alienazione: cioè alla situazione in cui, per causa della proprietà privata, il proletario si trova separato sia rispetto al prodotto della sua attività, sia rispetto al suo lavoro stesso. Per Marx l’unica soluzione è una rivoluzione storica con cui l’operaio possa liberarsi dell’alienazione e riacquistare la proprietà sul suo prodotto; per far ciò deve riscoprire la sua coscienza di classe, cioè riscoprire l’importanza che egli stesso riveste nel sistema. 
Questa rivoluzione porterà allo stato comunista, in cui le ricchezze vengono divise secondo bisogni e meriti delle persone e quindi l’individuo verrà disalienato perchè nello stato comunista non esiste la proprietà privata e, quindi, non esiste la disuguaglianza.
Nella società odierna un marxista tenderebbe a identificare l’operaio con l’immigrato in quanto oggi sono gli immigrati ad essere, secondo la visione marxista di lavoro e sfruttamento, costretti a lavorare per un salario che in realtà non compensa il loro operato ed emarginati dalla società medio-borghese.
Il sistema marxista fu ripreso nel corso del novecento da una corrente filosofica nota con il nome di Scuola di Francoforte i cui massimi esponenti furono Adorno, Horkheimer e Marcuse.
Costoro rivedono la teoria sulla disuguaglianza descritta da Marx, ma tendono a non teorizzare soluzioni per cambiare il sistema; l’unico a parlare di soluzioni fu Marcuse.
Nella visione di Marcuse e degli altri esponenti della Scuola di Francoforte il sistema ha inglobato tutti, anche gli operai che sono schiavi del consumismo.
 Per lui, gli unici in grado di portare avanti la rivoluzione del sistema sociale devono essere coloro che il sistema emargina e che quindi non essendo stati inglobati in esso hanno la possibilità di liberarsi meglio dal sistema stesso.  Marcuse pensa a barboni, supportati dagli studenti che non sono ancora del tutto assoggettati dal sistema. Prendendo in considerazione la società moderna tra gli emarginati potrebbero essere considerati anche gli immigrati, in quanto sono loro più degli altri a subire pregiudizi e discriminazioni; ma essendo essi ai margini del sistema sono coloro che hanno più possibilità di liberarsi della costrizione in cui il sistema, grazie al consumismo, controlla la società.

La tolleranza
La tolleranza non nasce dall'atteggiamento negativo basato sulla convinzione che non esistano alternative ma, al contrario, sull'accettazione di ciò che è diverso in quanto parte del tutto. L'atteggiamento della filosofia è sempre stato rivolto alle cose così come sono, e non come noi vorremmo che fossero, aprendo l'uomo alle infinite possibilità dell'essere e non, al contrario, rinchiudendo l'essere nelle anguste possibilità dell'uomo. Questo, che vale per la totalità degli enti che costituiscono la realtà, vale tanto più per quegli enti particolari che sono gli uomini: l'altro uomo, lo straniero, va accolto ed ascoltato, e spesso egli si rivela foriero di novità, di buon consiglio, di verità. Celebre a questo proposito (ma la mentalità greca, democratica per eccellenza, è intrisa di questo modo di pensare) è il Simposio di Platone, dove Socrate rivela ai convenuti che è stato istruito sull'amore da Diotima, sacerdotessa di Mantinea, simbolo fortissimo della diversità (una donna, e per di più straniera).
Esponente di questa teoria è Parmenide, il quale rispettava le diversità in quanto annullando le diversità si annullava l’essere stesso di un individuo, egli inoltre non considerava nemico ciò che è diverso.
Nel 1700 questa tematica è ripresa da Locke secondo il quale la tolleranza è alla base della lieta convivenza civile. Per arrivare alla tolleranza è fondamentale fare una distinzione tra potere civile e potere religioso che sono troppo spesso in conflitto tra di loro: lo stato tutela i beni e i diritti inviolabili del cittadino, mentre alla chiesa spetta le salvezza delle anime. Tuttavia la tolleranza non è da considerarsi valida per cattolici e atei: i primi perché non tollerano e tendono ad imporre la loro religione e i secondi perché non credendo in nessun dio non hanno, secondo Locke, dei principi morali affidabili.  L’uomo, in natura, non tende a sopraffare gli altri uomini ma alla reciproca aggregazione volta al mantenimento di diritti civili quali la vita, la libertà e la proprietà.
In questo periodo Kant, nella critica alla ragion pratica sottolinea come la morale sia frutto della ragione umana e non dipenda da religioni o da culture. Secondo Kant un principio morale deve essere regolato da leggi universali e necessarie e che quindi sono valide per tutti indipendentemente dalla cultura. Un comportamento è morale se non nuoce ad altre persone, se rispetta la libertà individuale e se il suo fine è l’umanità e non la propria persona. Si legge quindi all’interno della morale di Kant un nuovo concetto di tolleranza inteso come l’accettazione positiva  di tutto ciò che seppure diverso non nuoce alla libertà e alla dignità di una persona. La diversità viene accettata entro i limiti del rispetto delle norme morali universali. Con Kant si configura una morale non più basata sull’etnocentrismo, basata sui principi della nostra cultura ma una morale molto più ampia che guarda anche al di là dei nostri confini; la morale diviene l’elemento che accomuna  l’umanità e che getta le basi per un effettiva uguaglianza. Nella “Pace perpetua” si legge una critica molto forte verso il colonialismo occidentale nelle Americhe e nelle Indie, colonialismo basato sulla schiavitù e sull’oppressione dei nativi delle terre conquistate. Secondo Kant non esistono padroni di una luogo o di uno stato poiché la Terra appartiene a tutti nella stessa e medesima misura; per questo motivo lo straniero, sempre che agisca nel rispetto della libertà e dignità altrui,  non deve essere respinto e scacciato poiché l’ospitalità è il diritto comune a tutti gli uomini di non essere trattati ostilmente in una terra che non è quella d’appartenenza.
Voltaire costituisce testo fondamentale della riflessione sulla libertà di credo, sul rispetto delle opinioni e di quelle caratteristiche con cui oggi identifichiamo una società come civile. Per Voltaire, l'uomo parte dalla posizione di essere ignorante su molte cose, non vi è quindi motivo di perseguire fanaticamente l'intolleranza, propria degli uomini e delle società di tutti i tempi. L'intolleranza è presente sia a livello individuale che a livello politico: chiara è la tendenza dei potenti di essere intolleranti con i più deboli e tolleranti con i più forti; da considerare inoltre che ogni opinione repressa violentemente e con la forza, non può che generare altra violenza.