Sono in corso 2 sperimentazioni
ministeriali sulla valutazione scolastica, il VSQ, partito l’anno scorso in
epoca gelminiana, e il Vales, che dovrebbe partire quest’anno (termine per
l’adesione delle 300 scuole entro il 12 marzo).
Il progetto Vales ha avuto, sulle bozze
della sua presentazione, più consensi che critiche, anche per la decisione di
non condizionare l’erogazione dei fondi ai risultati di ranking tra le varie
scuole coinvolte. In realtà, leggendo le circolari istitutive delle due
sperimentazioni, le differenze sono minime, sostanzialmente ininfluenti
sull’impostazione generale, figlia della legge 150 (cosiddetta Brunetta),
ispirate ad una visione anglosassone della valutazione di sistema.
Entrambi i progetti prevedono una valutazione
totalmente esterna:
1. rilevazione degli apprendimenti
attraverso le prove Invalsi (italiano e matematica), con valore aggiunto
contestualizzato
2. valutazione di un team di esterni,
coordinati da ispettori e formati dall’Invalsi, che, utilizzando degli
indicatori (non ancora noti), definiranno il livello scolastico
3. indicazione da parte del team di
obiettivi di miglioramento, più o meno grandi a seconda di quanto l’istituto
sia da correggere; in base alla gravità, si daranno fondi (10 mila o 20 mila
€); differenza: nel Vales i fondi sono per tutti, nel VSQ vanno solo ai più
bravi
4. gli istituti, in autonomia,
usufruendo dell’Indire e delle università, faranno i compiti
5. il team torna per verificare se i
compiti assegnati sono stati svolti; gli esiti della valutazione saranno
pubblicati e consultabili da tutti (trasparenza)
Manca il seguito: cosa succederà a chi i
compiti li fa male o non li fa? Il progetto non dice, ma proviamo a fare una
ipotesi plausibile. E’ esattamente il sistema anglosassone di valutazione di
sistema: calcolo degli apprendimenti, rilevazione delle incongruità, obiettivi
da conseguire, verifica; il tutto fatto sempre da valutatori esterni; in Gran
Bretagna e negli Usa, le scuole che non raggiungono gli obiettivi fissati dai
valutatori, prima vengono penalizzate economicamente, poi si rimuove il
dirigente, al terzo anno vengono chiuse con licenziamento di tutto il
personale. C’è poco da scherzare.
Analizziamo i vari punti:
1. valutare gli apprendimenti con prove
standardizzate, è ormai acclarato, da una letteratura scientifica sconfinata
(soprattutto anglosassone, perché lì le ricerche le fanno), che è
controproducente e dannoso: il fenomeno
del “teach to test”, addestrare al test, è l’effetto più comune: si impoverisce
la didattica, le stesse competenze sottese non sono spesso favorite, gli
aspetti più critici ed elaborati degli apprendimenti sono trascurati, non c’è
attenzione alla individualizzazione dei percorsi ecc. (per chi volesse
riferimenti di pubblicazioni sul tema, quasi tutte in lingua inglese, può
chiederlo). Inoltre, in Italia l’aggravante è anche nelle competenze e nelle
materie testate; alcune competenze di base di italiano e matematica. Ai diveersi licei, per capirci, non ci sarebbe NESSUNA considerazione per le lingue al
linguistico, per latino e greco al classico, per la stessa matematica allo
scientifico (i test sono uniformi per tutti gli ordini di scuola) ecc.; se la
valutazione “oggettiva(?)” degli apprendimenti considera SOLO questi ambiti,
tutte le altre discipline, di indirizzo e non, non conterebbero nulla. Quale
effetto distorsivo si genererebbe, è intuitivo. Ovviamente anche altre
tipologie di verifica e di competenze da sviluppare, sarebbero una “perdita di
tempo”: il 90% del nostro lavoro sarebbe ininfluente per determinare ciò che i
nostri studenti imparano a scuola.
2. il team esterno, gli “omini col
ditino alzato”, che verrebbero a giudicarci. Chi sono? Propendo per qualche
funzionario della burocrazia ministeriale, formati dall’Invalsi (magari con una
ventina di ore “blendend”), un ente di una quarantina di dipendenti, oltre metà
dei quali precari, commissariato (Cipollone, il presidente, si è dimesso l’anno
scorso): costoro verrebbero a giudicare noi, cioè un gruppo di specializzati,
che mangia pane e scuola da venti-trenta anni, con esperienze spesso
notevolissime, con progetti gestiti e costruiti di livello eccelso: da noi
penso sia il caso che costoro (anche l’invalsi) vengano anche ad imparare qualcosa,
prima di “alzare il ditino”. Al di là della presunzione e dell’orgoglio (certo
che possiamo sempre imparare, ma da qualcuno che può insegnarci: ce ne sono, ma certo non chiunque…), le scuole sono OGGETTO della valutazione, tutta
esterna, senza avere la possibilità di essere protagonisti del sistema di
valutazione stesso: questo vedremo ha degli effetti molto gravi in una
istituzione dove si è chiamati ad esprimere, dalla stessa Costituzione, la
propria autonomia e criticità.
3. “Gli omini dal ditino alzato” ci
daranno gli obiettivi:
4. ora finalmente diventiamo
protagonisti: di scegliere come fare i compiti, a chi rivolgerci ecc. Troppo
buoni.
5. “Gli omini col ditino alzato” tornano
a verificare se siamo stati bravi, altrimenti …
Altrimenti, temo la deriva anglosassone:
questo sistema da lì viene, alla premialità si ispira, quindi…
I risultati verranno resi pubblici;
anche se il Vales, al contrario del VSQ, non fa classifiche, esse sono di
facile compilazione quando l’utenza vedrà i risultati che avremmo conseguito.
Metto in guardia dagli effetti che questa
proposta può avere sulla scuola, e avrebbe in ogni settore che ha a che fare
con i servizi pubblici essenziali (compresi forze dell’ordine, vigili del
fuoco, ma per loro, chissà perché, non propongono il ranking; aggiungerei anche
sanità, ma ormai è tardi, l’hanno già devastata), e che sulla autonomia si
fondano, come garanzia per i cittadini (in questo caso soprattutto scuola e
magistratura).
Il meccanismo di valutazione proposto
tende alla verticalizzazione, al verticismo, alla subordinazione e alla forte
limitazione dell’autonomia, puntando verso “l’impiegatizzazione” della
professione, alla subordinazione esecutiva del ruolo. Il fine di chi propone
questi metodi è esplicitamente questo, per i docenti e per i giudici.
Questo richiamo ha forte presa
sull’opinione pubblica, poco consapevole di cosa significhi un sistema
dell’istruzione dove l’autonomia e le libertà espressive, in tutte le forme,
culturali e di pensiero, rappresentano la premessa fondamentale della
formazione critica e libera degli studenti: un insegnante non libero, non può
insegnare la libertà, non è credibile.
Questa autonomia ha un prezzo, che è
dato dal cattivo uso che qualcuno ne fa, dall’arbitrio che a volte emerge: è un
prezzo inevitabile, che va tendenzialmente corretto; ma prendere questi casi
per togliere l’autonomia, di fatto e di diritto, darebbe un misero vantaggio:
docili “impiegati” esecutori, ma una formazione civile, culturale e
scientifica, limitata e impoverita.
La limitazione dell’espressione sarebbe
la regola nelle valutazioni solo esterne, verticali (dall’alto verso il basso),
senza potenti correzioni orizzontali: determinano, volutamente, l’adeguamento
alle direttive (sotto forma di criteri), che bisogna rispettare per non
chiudere.
Unite a questo le circolari di alcuni
direttori regionali, nelle quali si intima
a TUTTO il personale, dai presidi agli ata e ai docenti, di non fare
dichiarazioni/affermazioni che possono ledere l’immagine del loro datore di
lavoro, il Miur (e Gelmini): altro che libera espressione, ci sono presidi e
docenti sotto provvedimento disciplinare per affermazioni sugli effetti
negativi dei tagli della cosiddetta riforma. L’intento di subordinare il personale
scolastico, compresi i docenti, è palese.
Corre voce che la valutazione di sistema
c’è dovunque, come le prove standardizzate: non si dice però come sono, a quali
fini tendono e dove sono: c’è una varietà sconcertante, noi copiamo dai sistemi
inglese e americano, non da quello tedesco o francese, finlandese o spagnolo
ecc: l’ideologia che si vuole auto validare.
Anche l'idea che non vogliamo essere
valutati per "fare come ci pare è ricorrente", da parte degli “scimmiottatori”
anglosassoni: un po’ di respiro e, in una seconda parte, proverò a delineare un
profilo constuens.
Mario Secone
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